SCIATTUME POST-SISMICO: QUANDO “E ALLORA I TERREMOTATI?” DIVENTA IL NUOVO “E I MARO’?”
Sarà per via di Sanremo, che col tormentone dello scimmia-munito dai pullover color cacomela Gabbani ci sta facendo canticchiare, fischiettare e soprattutto ballare come squinternati a cui mancano non una ma svariate rotelle (ok, il pezzo è da villaggio del Ventaglio, ma nella testa si incastona che è un attimo). Oppure per la soap opera dai retrogusti argentini in scena in Campidoglio, dal titolo “La donna del mistero-reloaded”, con Virginia Raggi nelle vesti di suor (in)felicità (mentre scriviamo, giù dalla rupe Tarpea rotola il teschio auto-decapitato di Paolo Berdini). O infine, ancora peggio, per la versione colossal del monicelliano “Parenti Serpenti” in atto a Largo del Nazareno, dove le 317 correnti di quei discendenti di Querce, Ulivi, Margherite e arbusti vari agitano venti di separazione (peraltro, annunciare la scissione il 14 febbraio lascia presagire un non so che di jella).
Con la concentrazione dell’intero stivaletto italico sequestrata da cotanti show, in un silenzio da cenobio di clausura lo scorso 9 febbraio è diventato “vangelo” sulla Gazzetta Ufficiale il Dl sisma, terzo provvedimento dal funesto 24 agosto dedicato ai disastri della terra che trema, il primo con la “griffe” dell’esecutivo Gentiloni. In attesa che si apra il rubinetto dei fondi strutturali di Bruxelles, col ping-pong tra Commissione e Consiglio d’Europa che rischia di protrarre la faccenda alle più classiche calende greche, il Dl gentiloniano spicca come previsto per timidezza, caratteristica che oltretutto straborda nello stesso premier. E da lì spiega la tanta quiete intorno alla sua approvazione. Agevolazioni qua e là, esenzioni “mignon”, sostegni alle imprese (sotto forma di prestito agevolato, eh) fino al dicembre 2018, aiuti alle famiglie più indigenti (non oltre i 6 mila euro di Isee), niente canone Rai per 18 mesi (ma solo se la vostra tv è sotto i calcinacci: che culo, La prova del Cuoco, il Tale e Quale show e Marzullo per i nottambuli sono tutti salvi), novità sugli appalti per la costruzione di nuove scuole (forse il paragrafo più succoso del Dl). Busta paga pesante? Sì, ma con maglie così strette da sembrare infeltrite per i lavoratori residenti nel cratere 1 e 2, e solo per i danneggiati nei comuni per così dire “periferici” dei craterone appenninico, vedi appunto Fabriano, Ascoli Piceno, Rieti e compagnia molto poco festante. Di zona franca fiscale, al contrario di quanto si era paventato a gennaio, neppure l’ombra: per quella vi toccherà salire a Livigno.
Insomma, un testo iniquo e cattivone parrebbe. Allora perché nessuno gli ha dedicato mezzo dittongo? La ragione è semplice: questo benedetto decreto è l’ultimo dei problemi di questo post-sisma. I guai qui sono strutturali, per questo è necessario un po’ di rewind. I movimenti tellurici, da agosto fino agli ultimi tremori della terra di gennaio passando per le potentissime scosse di ottobre, ha colpito una enorme lingua di Appennino a bassa densità abitativa, ma proprio per questo di difficile “governance” emergenziale. Paesini, frazioncine e grumetti di case magari non distanti tra loro ma appartenenti a quattro regioni diverse, borghi minuscoli attaccati ma con realtà municipali differenti, aree montane con bacini d’utenza opposti. Uno sparpaglio generale che, come ricordiamo all’indomani delle scosse più violente, avrebbe richiesto un drappello della Protezione Civile in ogni meandro più remoto dei Sibillini, scenario non semplice da orchestrare. Per non parlare della viabilità tra strade, viottoli, traversette e capillari delle arterie principali tutte sventrate dal crudelissimo sisma. Senza tralasciare, infine, la microeconomia a trazione bucolica delle aree interessate, con migliaia di animali che da queste parte sono equipollenti ai cristiani per ragioni sia affettive sia finanziarie.
Incasellati con pennarello indelebile tutti questi “alibi” a premessa, la gestione del “dopo”, a sei mesi da quel tremendo 24 agosto, mette a nudo tutta la farraginosità e l’inadeguatezza delle istituzioni e delle strutture ad essa collegate. Ovvio, sparare all’impazzata con l’obice sulla politica, partendo dal Renzi in rombante campagna elettorale dello scorso autunno, è pratica sin troppo sempliciotta e neanche del tutto giusta. Non siamo di fronte al Gup, e non c’è un colpevole più colpevole di altri. A sconcertare è la totale mancanza di ogni sincronia, articolazione ed armonizzazione tra Governo, Parlamento, regioni, sindaci, ma anche Protezione Civile, Vigili del fuoco, struttura commissariale e così via. Se Stato centrale ed enti locali da tempo appaiono come carrozzoni distanti e spesso in combutta tra loro, l’ultimo semestre ci ha regalato rette parallele che non si incontrano mai.
L’elenco degli infortuni è chilometrico. Tempistiche mai rispettate. Tre edizioni per una stessa gara d’appalto per i container tra tornate deserte e bandi Consip sballati, per poi scoprire che nelle aree terremotate i container li hanno richiesti sì e no una manciata di persone. Un contrattone per l’allestimento-lampo di tensostrutture per il ricovero degli animali stracciato (pochi giorni fa dalle Marche, nei primi giorni di gennaio dal Lazio) in quanto dopo cinque mesi e con nel mezzo una mezza strage di ovini, suini e bovini ne sono state consegnate meno del 5%. Un cortocircuito burocratico relativo all’urbanizzazione dei siti dove schiaffare le tanto dibattute Sae (Soluzioni abitative d’emergenza: le casette, per parlare come mangiamo) tra firme mancanti, rimpalli di responsabilità e urla belluine di lesa maestà da parte di primi cittadini con nel naso ubriacanti fragranze di protagonismo. Sopralluoghi a passo di lumaca (su 80 mila necessari, il tassametro dice che siamo sì e no a un terzo). E ancora: pasticci sulla rimozione, oltretutto lentissima, delle macerie. Campagne di informazione dei soggetti istituzionali da codice penale. Indici perennemente puntati sul masochista Errani (aveva qualche grossa pecca da espiare per prendersi sto cetriolo) anche in merito alla gestione dell’emergenza, quando l’ex governatore emiliano è invece soltanto il “commissario per la ricostruzione” e le gatte emergenziali da pelare sono tutte nel tendone della Protezione Civile e del suo nocchiero Fabrizio Curcio. Governatori sub-commissari che, non gestendo il becco di un quattrino sulla vicenda, respingono con fare pilatesco ogni responsabilità con la mazza da baseball. Sindaci che adesso battono i pugni gridando “le casette ce le facciamo da soli!” (a pattò però che il governo sganci fior d’assegno). E poi le iniziative per evitare l’estrema unzione al turismo non pervenute, anzi proprio desaparecidos, con le prenotazioni in vista dell’estate in calo del 35-40% nelle sole Marche.
Dopo aver seguito il post-sisma per mesi, si può dire: la rassegnazione sta trionfando. Non soltanto in chi, poveraccio, ha perso tutto e dorme accartocciato in sette plaid dentro una roulotte oppure in una iperbarica stanza d’albergo a 100 km da casa sua. La rassegnazione ora sta contagiando tutti, a partire da chi il nodo di Gordio dovrebbe contribuire a sbrogliarlo e i problemi a risolverli. Passata poi l’enfasi amorevole ed eroica dei ciauscoli, delle vernacce di Serrapetrona, delle “magnum” di Varnelli e dei tagliolini di Camerino inseriti nei pacchi di leccornie natalizie, adesso il sisma si sta elevando a entità quasi macchiettistica, alla quale si guarda con mogia sconsolazione. “E allora i terremotati?”, come interrogativo per deviare una diatriba verbale, sta sostituendo il tormentone “E allora i marò?” che per tanti mesi ci siamo sorbiti. Eppure la differenza tra le due vicende è oceanica (in tutti i sensi). Eppure un tratto comune si rinviene: tanto va la gatta al lardo, che lo zampino, guarda caso, è sempre quello delle istituzioni italiane. Tristezza a catinelle.
Valerio Mingarelli