TANTO TUONO’ CHE… PIACQUE: GENTILONI E LA QUIETE CHE SURCLASSA LA TEMPESTA

Comunque vada panta rei, and singing in the rain, lezioni di nirvana, c’è Buddha in fila indiana: chissà se Francesco Gabbani, nel mettere in versi e melodia il tormentone (che però adesso inizia a tormentarci davvero) con cui si è preso lo scalpo della Mannoia a Sanremo, avrà pensato a Paolo Gentiloni Silverj, il calmo e placido anestesista chiamato ad assopire la legislatura all’indomani della Caporetto renziana del 4 dicembre dall’altro olimpionico del sopore Sergio Mattarella. In un parallelo col testo pentagrammato dal cantante carrarese, l’inquilino di Palazzo Chigi appare un po’ come un distensivo rimedio orientale allo scombussolato e malmostoso mondo delle scimmie nude (e urlatrici) che ballano sulla traballante pedana della politica italiana. Nella quale più che l’Occidentali’s, è l’Accidentali’s Karma che spadroneggia a suon di guaiti.

Com’è e come non è, il premier Lexotan, quello con la data di scadenza scritta in stampato “Arial” corpo 72 sulle cupe giacche antracite, si appresta a larghe falcate a oltrepassare le colonne d’Ercole dei cento giorni di governo. A meno che il 15 marzo non arrivi dall’emiciclo carminio del Senato un inatteso impallinamento sulla mozione di sfiducia grillina a Luca Lotti (assai poco probabile), il primo ministro dal sangue blu e dalla favella monocorde rimarrà ben saldo sulla plancia di comando. E con la tramontana che soffia su Renzi per l’intrecciata e tutt’altro che limpida vicenda Consip e alla luce di un marchingegno elettorale che, allo stato attuale, in caso di urne anticipate non farebbe né vincitori né vinti, l’ex Watson dello Sherlock Rutelli sindaco di Roma sta cominciando a sfasciare più di un trolley a Palazzo Chigi: l’orizzonte ormai è il 2018, come lui stesso ha sussurrato a Pippo Baudo sul poco consueto (per un capo di governo) sofà domenicale della rete ammiraglia di mamma Rai.

Fin qui però siamo all’avanscoperta dell’acqua tiepida. Il dato eccezionale arriva invece dalle algoritmiche “Mappe” che il professor Ilvo Diamanti traccia (spesso con colate di piombo da 15 mila caratteri) su Repubblica. Il premier-valeriana, guardando agli indici di gradimento più “freschi”, è il politico che allo stato attuale al popolo bue garba di più. Con il punteggio stratosferico di 48 (nel baseball sarebbe un “home run”), il narcotizzatore è secondo solo a chi li lo ha messo (il capo dello Stato). Renzi, in caduta libera e attualmente a quota 33, anche nella stagione di grazia 2013-2014, quando da dicembre a giugno si prese manu militari il partito, il governo e il tanto strombazzato 40% alle europee, al massimo aveva raggiunto il 44. Stessa sinfonia vale per Di Maio, pure lui in flessione. Ma come, nell’era social del linguaggio cool, delle campagne web, degli hashtag selvaggi, delle concioni televisive arrembanti e dei pitbull da combattimento scaraventati sul ring dei talk show, a scaldare i cuori degli italiani ci pensa colui che doveva raffreddare il rovente barbecue politico in attesa che il mercurocromo agisse sulle ferite referendarie di Renzi? Ebbene sì, e la cosa si presta a molteplici considerazioni.

Gentiloni non è apprezzato per la solidità della sua leadership (che tale non è, oltretutto) o per il piglio ardimentoso della sua azione politica. Il suo è un governo bolso, plasmato con la carta carbone dal precedente e messo lì più a fare da badante ai conti pubblici e da mero metronotte al palazzo, che altro. Un esecutivo dove i membri del Pd a parte nelle (sporadiche) messe liturgiche istituzionali si danno alla macchia appena possono, quelli di Ncd (fresco di estrema unzione: nascerà una nuova compagine a fine mese) idem e nel quale la vicenda Lotti pesa più di un tir. Senza contare che parliamo di un team dove non si muove foglia senza che Padoan voglia (l’economista ex Ocse fa pentole e coperchi). Poi c’è un Parlamento arrivato all’ultimo giro di pista della legislatura fiaccato come un ronzino da soma, che vive in stato da ultimo giorno di scuola da prima della sbornia referendaria e a parte un po’ di sciame legislativo residuale non partorisce mezzo testo che è uno (do you remember “ius soli” o “biotestamento”?).

Dunque questa innaturale love story tra il pubblico sentire e il premier non può essere di merito, ma è tutta di metodo. Il Movimento 5 Stelle ormai detta l’agenda: politologi paludati di ogni rango lo ripetono a tamburo battente. E hanno (in parte) ragione. I grillini attaccano la filippica sul reddito di cittadinanza? Renzi butta là un’improbabile “lavoro di cittadinanza”. Di Maio e Fraccaro aggrediscono pensioni e privilegi parlamentari? Il povero Richetti rilancia la sua proposta di addio definitivo ai vitalizi (che nel gruppo parlamentare Dem crea parestesie acute solo al pensiero, peraltro). I pentastellati fanno i manettari (è la loro specialità della casa) con Lotti? I turbo-renziani fanno lo stesso con la spaesata Questo inseguimento forsennato al consenso “fast” che il M5S riesce ad avere ha portato il centrosinistra a sbriciolarsi come un frollino in più pezzi. Ed è proprio il “metodo”, inteso come concetto di comunicazione e approccio alla vita politica, che è andato a farsi friggere. In un clima permanente da balera di quart’ordine, dove vige il rutto libero come forma primaria di confronto verbale insieme alla contumelia reiterata e alla tristissima e poco edificante gara a chi piscia più lontano, lì spicca e si eleva il bon ton, il bisbiglio sedante e il dolce stil vecchio di Paolo Gentiloni.

Per chi come noi fa il mestiere del giornalista, il ducaconte di Filottrano erede del Gentiloni del “Patto” è uno da evitare più dell’uranio impoverito: è in grado di parlare un quarto d’ora (sottovoce, ovvio) e di non darti neppure un titolo, oppure di risponderti in video a un quesito secco tipo “presidente, a quando la manovra correttiva?” partendo da Adamo ed Eva e dal loro rapporto deficit/pil. Però è tutt’altro che uno sprovveduto: è uomo di sintesi, evita furbescamente assalti all’arma bianca, parla cinque lingue a differenza del giovinastro che lo ha preceduto al soglio chigiano. Non promette, non si sconsola e non si esalta. In particolar modo, però, è uno che non irrita nessuno: ricchi e poveri, bianchi e neri, datori di lavoro e sindacalisti, cotti e crudi, e via proseguendo. E cosa ancor più importante, non si irrita. Di Maio e i grillini, che in questa fase di baruffa e con Renzi alle corde lo vedono come la freccia più affilata all’arco dello sbronzissimo e devastato Pd, lo hanno paragonato (con gusto rivedibile) a una camomilla per un malato terminale. E lui? Altro che tweet, non ha mosso un ciglio. Quindi sicuri che al Pd serve un “rambo” e non un furbo damerino? Nella savana politica italiana tanto tuonò, che, alla fin fine, pure il narco-presidente piacque.

Valerio Mingarelli