LA MALA EDUCACION DEI ‘TECNICI’ E’ UNA BOIATA: NOI LICEALI NON SIAMO GIGLI DI PRATO

E’ passata quasi una settimana da quando Michele Serra, il sultano dei “buongiornisti” che oramai imperversano nel giornalismo italiano (guai a far partire le rotative se ogni testata non ne ha in pagina uno), ha gettato il petardo in quel grande calderone che è oggi il macro-tema “bullismo”. Tra urla belluine, post al vetriolo e benedizioni fresche di acquasantiera, è ancora tutto un ciangottio sulle 1500 battute elevatesi a pomo della discordia ovunque, dalla Val Chiavenna a Marina di Ragusa. A bocce ferme, si registra un settimo cavalleggeri di intellettuali, prosatori e novellieri accorsi in difesa del noto corsivista di Repubblica. Del resto è noto: quando una controversia scatena il popolo bue sui social network, la nostrana “intellighenzia” fa quasi sempre quadrato intorno a sé stessa. Detto ciò, anche ai più ispirati (e Serra ispirato indubbiamente lo è) capita talvolta di pestare una merda, specie se costretti a partorire opinioni giornaliere “calibro 9”, sintetiche e portatrici sane o insane di dibattito. Che l’illustre firma del quotidiano fondato da Scalfari qualcosetta abbia sbagliato nella sua riflessione è dimostrato dal fatto che, dopo i dardi del mattino seguente, ha sentito il dovere di versare una colata di piombo da diecimila battute all’indomani per mettere qualche “fermino” alla polemica. La toppa si è purtroppo rivelata peggiore del buco: un piccato pippone agli appunti (altrettanto fighettini) mossigli da Luca Telese. Detto ciò, le parole di Serra qualche interrogativo interiore francamente lo sollevano.

La dibattuta Amaca non so quanto possa essere bollata come classista: saranno pure sgradevoli quelle parole, ma è lapalissiano che la nostra società si regga, oggi come ieri, su rapporti di forza consolidati tra chi ha più e chi ha meno. Questo però riguarda strettamente la sfera materiale e delle opportunità. E’ di un banale lampante, invece, la traslazione dell’assioma nel contesto scolastico e dell’educazione in generale. A leggere i fantomatici 1500 caratteri, vien da pensare che più grande è la tua familiarità con Seneca o col Manzoni, maggiore sarà la tua creanza. Se invece ti viene insegnato in un istituto professionale come funziona un tornio, sei destinato a rimanere nell’alveo delle cattive maniere e della mala educacion. Spezza definitivamente il filo logico (e fa cadere gli avambracci) l’assunto secondo il quale “vanno al liceo i figli di quelli che avevano fatto il liceo”: forse Serra è rimasto fermo al 1959 e al governo Fanfani II, ma da almeno trent’anni non è più così, e chi scrive (figlio di due diplomati “semplici”, magistrali e Ipsia) ne è solo uno dei milioni di casi.

Torniamo però in mezzo alla carreggiata della questione. A un certo punto mi sono domandato: ma davvero ho questo surplus di educazione e bon ton rispetto ai tanti miei amici o coetanei soltanto perché ho fatto il liceo classico? E qui, riavvolgendo il nastro, sbellicarsi dalle risate è stato il minimo sindacale. Premettendo di essere stato un liceale atipico (e poco stakanovista) e che basket, musica grunge e Verdicchio negli anni ’90 erano in cima ai miei pensieri molto più di Omero, Ariosto e Hegel, ricordo che io e i miei compagni di classe eravamo avvezzi a fare il diavolo a quattro in quanto a marachelle al pari o anche più dei nostri coetanei di Itis, Ipsia, Itcg e via discorrendo. Insomma, non eravamo candidi gigli di prato in mezzo a sgraziate sterpaglie. Detto questo, uscito da scuola, quel poco di galateo che mi sono portato in dote credo sia germogliato grazie al lavoro dei miei genitori, non laureati ma in grado di insegnarmi il rispetto per gli altri oltreché maniere decenti, al quale è andato ad aggiungersi il lavoro di professori perlopiù eccelsi.

Quindi parliamoci chiaro: conosco decine di famiglie con papà operaio o muratore e mamma casalinga dove è stata fatta un’opera pedagogica encomiabile nell’insegnare l’educazione ai figli, così come mi sono imbattuto in una casistica ampia di pargoli di ceto benestante abbandonati a ammaestramenti fai da te, spesso discoli, tracotanti e fortemente ineducati. Il figlio di papà che “se la sente calla”, per dirla in dialetto, difeso oltretutto dal ventre di vacca familiare a ogni stronzata o birichinata, è un caso umano fin troppo comune. E qui casca l’asino della generalizzazione di Serra, anche rapportando il tutto al giorno d’oggi: a venirci in soccorso c’è uno studio Istat di un paio d’anni fa, dove il 20% e passa dei casi di bullismo avrebbe luogo nei licei, contro il 18% degli istituti professionali e il 15% di quelli tecnici. Infine arriviamo alla terza constatazione “serriana”: “il popolo è violento per nascondere la sua debolezza”. Storicamente il popolo si incazza proprio per metter luce sulla propria condizione, e anzi oggi lo fa molto meno, poiché i ceti che soccombono strillano, magari proferiscono latrati via Facebook, ma nell’abbaiare quasi mai mordono. Quindi pure qui i distinguo sono tanti.

Per chiuderla prendiamo Fabriano: è chiaro che all’Ipsia o all’Itis di Fabriano non sono tutti insolenti monellacci, così come alla cittadella degli studi dove albergano i licei non abbiamo tutti raffinati piccoli Lord. Almeno su questo credo che possiamo essere tutti d’accordo. A parte Serra, naturalmente.

Valerio Mingarelli