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ELOGIO DELLO STRANIERO

Mentre incombeva il silenzio elettorale per sfuggire alla pressione morale ed immorale della civiltà del voto con tutti i suoi corollari fatti di polemiche, screzi, disgusti e aggressività bruta ho ripreso in mano il libro di Albert Camus che più amo : lo straniero. Devo dire che è un libro che conosco a memoria e che accompagna la mia vita, meglio dei libri italiani. Lo lessi da adolescente e non mi ha più abbandonato. Torna nei momenti più oscuri come una specie di lanterna. Ma qualcuno potrebbe domandare che cosa può illuminare un libro “cosi tenebroso e assurdo?”

Ecco se te lo tieni sul comodino e hai la pazienza di entrarci è un libro che illumina molto, anzi tutto. Meursault, il protagonista, è un uomo che vive scollato dal mondo, le cose gli accadono, ma lui ne rimane distante, ha un piccolo impiego presso un assicurazione ad Algeri, la madre gli è appena morta in ospizio. Maria lo amerebbe se si facesse amare, ma lui non vede al di là dell’esperienza e non ha nulla da dire sugli aloni morali che circondano come zattere di salvataggio la vita vuota degli uomini . Sembra non provare sentimenti o emozioni per ciò che è umano. Un vicino di pianerottolo gli chiede di aiutarlo nella risoluzione di una questione di donne. La faccenda finisce male e una domenica sotto il sole cocente della spiaggia, Meursault spara ed uccide un arabo. “Mi è parso che il cielo si aprisse in tutta la sua vastità per lasciar piovere fuoco. Tutto il mio essere si è teso, ho stretto la mano sulla pistola…”

Eppure noi non sapremo mai perché quest’uomo ha deciso di uccidere, il suo avvocato non riesce a difenderlo, lui si rifiuta di dire quelle cose che potrebbero scagionarlo. Alla fine col prete che viene ad importunarlo prima della esecuzione ha un terribile litigio intorno al senso dell’esistenza. Al giovane parroco che vorrebbe farlo pentire per salvargli almeno l’anima, lo straniero risponde per monosillabi. Ma quando il cappellano gli chiede di vedere il volto di Cristo nel fondo delle pietre della cella, allora Meursault s’inalbera lo prende per il bavero della giacca e gli urla addosso che “nessuna della sue certezze valeva un capello di donna”. Lo straniero sa che il prete “non era neanche sicuro di essere vivo, perché viveva come un morto”. Invece per lui c’era questa verità: “Certo io sembravo a mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, sicuro della mia vita e della morte che mi aspettava. Sì non avevo altro. Ma almeno possedevo quella verità quanto lei possedeva me”.

Ecco tenersi sempre appresso la verità di Meursault, credo che sia importante, è l’unica verità che ci ha dato il Novecento. Essere qui ed ora, senza credere che ci sia un domani. Prendere alcune distanze dall’edificante che ci possiede, dall’umanesimo domestico e frolloso che ci intasa i neuroni, dai sensi di colpa che ci ingorgano le scelte, dalla connivenza e convivenza con la comunità, con la famiglia, con il gruppo amicale, con il lavoro che vorrebbe stritolarci. Sentirsi sempre come se fosse l’ultimo giorno e non avere paura. Lo straniero è quasi uscito dalla comunità umana, ma è ancora là sul limite, dove tutte le situazioni perdono la loro storia e si fanno puri eventi. Ma è proprio lì che finisce la paura.

Stasera quando prenderò in mano le ultime pagine, quelle che accompagnano Meursault verso la ghigliottina, cercherò di ricordarmi dei miei giorni, della brutta storia di Italia, di questi anni tristi, dei fallimenti, e della campagna elettorale più fastidiosa della Repubblica, delle cose che sembrano andare verso il baratro e immaginerò il volto dello straniero sorridente. Il volto di un amico.

Alessandro Cartoni