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LA VITA IN ‘DILETTA’: NON SON ‘SDEGNO’ DI TE

Un postaccio, questa rete. Una balera di quart’ordine, di quelle che le nostre nonne ci direbbero di non frequentare o, al massimo, di entrarci senza accettare caramelle dagli sconosciuti. Una mega-abbazia sacrilega con dei sottoclub privée (i social network) che sono la configurazione plastica della feccia antropica del terzo millennio.

In breve, è questo il mantra sgorgato a fiotti ieri dai boudoir televisivi e dalle tastiere incandescenti di analisti e corsivisti, sociolinguisti e antropologi, “baciasantini” e stregoni della comunicazione (che però chiamano il loro lavoro solo con fanfaronate inglesizzate, che fa più figo). E, soprattutto, da perditempo affetti da mal di mouse irreversibile (e da click sul tasto “pubblica” facilissimo, però).

Torniamo alla mera cronaca. Ieri, mentre tra mandibole spalancate per gli sbadigli l’aula di Montecitorio approvava un testo di legge pastrocchiato (e deturpato rispetto a quello uscito dal Senato) sul “Cyberbullismo”, dinnanzi ai monitor sparpagliati per lo Stivale si scatenava il più grande tifone ormonale corale dai tempi di “Colpo Grosso” e delle pepate commedie anni ’80 con Edwige Fenech e Barbara Bouchet (sempre siano lodate). Diletta Leotta, la giornalista “diversamente cessa” che tra un gol della Pro Vercelli e uno della Ternana ogni sabato “stressa” le coronarie dei malati di pallone nelle cronache del campionato di serie B su Sky, diventa il nome più digitato su Google, Explorer, Flickr, YouTube, Facebook, Twitter e forse pure su Kijiji, Booking, TripAdvisor e persino tra i 13 utenti superstiti su MySpace. Infatti dal suo cellulare hackerato sono usciti fuori autoscatti (o fotomontaggi? Boh) osé, autentica manna dal cielo per il battaglione di morti di figa che naviga senza meta su internet. Da lì il piccante bottino si propaga come fosse un’epidemia di clamidia virtuale, e ovunque si alza una nuvola polverosa e avvilente di commenti di ogni tipo che regalano un “martedì grasso” a tutte le peggiori categorie di bimani dotati di user e password.

Ci sono i beoti che alla velocità della luce appiccicano addosso alla conduttrice l’epiteto di “troia” o definizioni simili (per mezza tetta al vento). Sono gli stessi che ripetono il pippone “eh ma se l’è cercata” quando viene molestata una donna con la gonna appena sopra ai legamenti crociati (nessuno li ha avvisati che il Medioevo è terminato cinque secoli e spiccioli fa). Poi ci sono gli allupati (quelli che 20 anni fa si attizzavano con due foto su Postalmarket edizione autunno-inverno per tre brunette in pullover): tra risa sguaiate ahahah e pacche sulle spalle virtuali fantasticano su cosa farebbero con tanto bendidio per le mani (se la darebbero a gambe, i più). Non potevano mancare le invettive femminili che sanno di volpe che non arriva al grappolo (vorrei ma non posto, per dirla con J Ax). “Eh, ma non ha sto gran lato B in fondo”. “Ho visto persino un buchino di cellulite sull’adduttore sinistro! Orrore!”. “Complimenti al chirurgo!” (che la Leotta abbia avuto incontri ravvicinati col bisturi è tutto da verificare). “Bah, mia cugina gli dà tre piste!” (Già, e se mio nonno avesse avute tre palle, beh… lo sapete). Bestialità a go go. Ci sono poi i predicatori di sventura in tema di privacy, con le loro nefaste (e soporifere) omelie: “Con questi smartphone chissà dove andremo a finire!”. “Ormai con internet non si è al sicuro nemmeno nel tinello di casa! Ci spiano tutti!”. All’appello mancano solo un bel “non esistono più le mezze stagioni” e un “cielo a pecorelle, acqua a catinelle” per completare l’Olimpiade dell’allarmismo (e del luogo comune). Ah, poi arrivano i sindacalisti in erba, chi si preoccupano sul futuro a Sky dell’avvenente bionda dopo il caso Di Canio (a assurdità speriamo non segua altra assurdità: a Sportmediaset si stanno già sfregando le mani). Infine, c’è la categoria dei meta-commentatori, forse la più piagnucolante, che sferra all’unisono la frusta dello sdegno per punire il popolo bue. Sono quelli che fanno la critica del commento, cerchia di eletti che viviseziona ogni sillaba (brutta cosa l’eccesso di tempo libero) per dissociarsi con menate verbali al vetriolo dall’orda vandalica di smidollati che dicono la loro sulla faccenda, quasi appartenessero a un’altra specie mammifera.

Il melmoso pantano di reazioni uguali e contrarie e la fiumana trivella-gonadi di parole su quattro foto di una donna di 24 anni come mamma l’ha fatta apre a due riflessioni. Prima. Che siano fotomontaggi o no, abbiamo la certezza che rete e rispetto della privacy (per ora) vanno d’accordo come sciiti e sunniti in Iraq. Quindi, fino a nuovo ordine, meglio evitare sexy-selfie o (ancor peggio) video bollenti al gusto paprika a sfondo sessuale: internet ci ha dimostrato che quando fai uscire il dentifricio dal tubetto, poi rimetterlo dentro è impossibile (come nel caso della povera Tiziana Cantone. Che non era un personaggio pubblico e ce l’hanno fatta diventare: chi la insulta anche da morta va oltre la beozia ed è semplicemente un miserabile, ndr).

Punto secondo: ha ragione Mentana quando dice che Facebook è popolato da webeti. I social network però sono la cartina di tornasole della nostra società: se in rete ci sono i webeti, nella vita reale abbiamo gli ebeti. Se in rete ci sono i cyber-bulli, nelle scuole ci sono i bulli e basta. Se su Facebook ci sono i social-indignati, la terra è piena di indignati. E di chi parla a vanvera (come su FB). Di chi insulta tutti: pure la madre, il padre e il gatto (come su FB: sul povero Gianni Morandi linciato per due buste del Conad di domenica il livello di deficienza ha raggiunto vette himalayane). Di chi attacca briga (ibidem FB). E anche di chi prova a scrivere cose intelligenti: c’è chi lo fa battendo i tasti e chi con una vecchia biro. Non è vero, come sentenziò sua maestà Umberto Eco, che i social network sono recinti dove si trovano esclusivamente imbecilli al pascolo. Anche il mondo reale è bello pregno di imbecilli (che non hanno mai letto né il suo “Pendolo di Faucault” né i suoi saggi di semiologia), solo che il professore ne ha conosciuti pochi. E’ la libertà di espressione, bellezza: Facebook, Twitter e affini la amplificano e ne esaltano le scorie nocive, ma va difesa. Ed è questo il motivo per cui tramite post sbuffiamo, facciamo levate di scudi e ci indigniamo per ogni dittongo che non ci aggrada, ma col piffero che molliamo Facebook. E se che il “verdetto” di Eco fosse vero, c’è un sostanziale distinguo da fare: dall’imbecillità virtuale dei social si può sempre uscire per disintossicarsi, da quella della vita reale no. A meno che non vi mettiate (come un cellulare) in “modalità aereo”. Per Marte, però: lì la privacy ve la tirano dietro.

Valerio Mingarelli