VOUCHERISMO E JOBS (DISF)ACT: LA REPUBBLICA FONDATA SUL BUONO PASTO

Ok, nella settimana appena passata di carne sul fuoco mediatico ce n’è stata talmente tanta che braciole e spuntature sono tracimate dal barbecue. Dal terribile scontro dei treni in Puglia alla follia del “Promenade” nizzardo, arrivando fino agli sconquassi del “golpetto” fallito nel fu impero Ottomano (risoltosi con un Erdogan che l’ha presa talmente con sportività che nella mezzaluna sta facendo arrestare anche scorpioni e narghilè), fiumi di ciarle e inchiostro sono scorsi sui menabò giornalistici e, talvolta a sfallo, sulle mai silenti bacheche Facebookiane.

Il chiacchiericcio politico nostrano, poco incline ad avventurosi fiati nelle trombe degli sconquassi internazionali, vede i vari contendenti imperterriti nel caricare a pallettoni gli armamenti in vista della campale battaglia rusticana del referendum autunnale. Tra comitati del “Sì”, del “No”, del “Forse”, del “Vedremo”, dello “Sticazzi” e dello “Sfoglierò la margherita”, è tutto un brulicare di urla belluine in barba ai consigli di Jim Missina, il gran visir del “big data” e del… “sul referendum la palla tocchiamola piano”, chiamato per siringare un overdose di “massmediaticità” alle truppe renziane. Disatteso subito dall’ufficiale più alto in grado del renzismo: quella Maria Elena Boschi che all’indomani dell’approdo al Nazareno del geniaccio della comunicazione del Colorado è riuscita a farla fuori dal vaso annunciando che con una vittoria del “Sì” si potrebbe sferrare un bel colpo di mannaia al terrorismo islamico (come, però, lo sanno solo gli astri). Per contorno un’altra scissione di Scelta Civica (la 42esima in un triennio) e come dessert una ciurma sparuta di buontemponi a caccia di Pokemon in piazza del Campidoglio (lo sapesse il Buonarroti…).

In mezzo a questa baraonda è passata praticamente sotto silenzio la funesta lenzuolata di numeri sventolata nel disinteresse generale (e ti pareva) dall’Inps: tra gennaio e maggio del 2016, messi via i coriandoli e gli strufoli (e soprattutto la doccia tropicale di incentivi) dell’anno “santo” del Jobs Act, i contratti di lavoro stabili sono crollati del 78%. Nella merda eravamo, e nella merda siamo ancora, non fosse che secondo l’ammiraglia previdenziale condotta da capitan Tito Boeri nel 2014 c’era assai più brio contrattuale di adesso (specie in settori clou come l’edilizia e l’industria metalmeccanica). Nella tragica sequela di “segni meno” dinanzi alle cifre dell’Inps, spicca un “segno più” bello tondo e rigoglioso: quello dei voucher, cresciuti del 43% e passati da trascurabili camei del nostro sistema retributivo a tenori e soprani.

Il voucher è il nuovo baluardo del dumping salariale, anche se i non anglofoni preferiscono etichettarlo col più greve termine di “fregatura”. In verità qui va fatto un distinguo. Il tanto vituperato voucher non è né una banconota del Monopoli né una fiche per una serata a Texas Hold’em tra vecchi amici. Non è nemmeno dei buoni pasto (Dio li abbia in gloria). E’ uno strumento entrato in scena dal 2008 per volere dell’allora governo Prodi, volto a retribuzioni “accessorie”, vale a dire non riconducibili a un contratto di lavoro vero e proprio. Per parlare come mangiamo, è una modalità di pagamento per lavori non saltuari, ma saltuarissimi: il liceale in vacanza che lavora (a chiamata) come cameriere una tantum, il pensionato che pota qualche siepe qua e là, il lavoratore in cassa integrazione che nel frattempo si arrangia a pitturare 2-3 pareti e così via. Invece, da un anno (col beneplacito delle maglie larghe del Jobs Act) molti datori di lavoro (dei settori più svariati) ci pagano autentici stipendi con questi “cosi”: quello che doveva essere un secchiello per l’emersione del nero si è rilevato una tanica di nero su quei lavori già precari e malpagati. In nome della nota filastrocca “o te magni sta minestra o te butti dalla finestra”. Negli ultimi giorni nell’occhio del ciclone è finita una nota catena di supermercati in Toscana: a cassieri, salumieri, magazzinieri e addetti alle pulizie non è stato rinnovato il contratto (a tempo determinatissimo), ma sono rimasti a lavorare a tariffa oraria. Pagati, ovviamente, coi “voucherini”. Il che implica senza ferie né malattia. Ah, non nominate nemmeno il congedo di gravidanza: nell’incantato mondo di questi “tagliandini” lo stato interessante delle donne non è neppure contemplato.

Un voucher vale 10 euro (contro i 5,29 del buono pasto) dei quali al netto a pagare al malcapitato lavoratore ne arrivano 7,50: un quarto del compenso va a formare proprio quel “cuscinetto contributivo” che è la ragione per la quale questo cervellotico salarietto è stato creato. E il motivo per cui ha ancora svariati sostenitori. Ci si potrebbe anche stare, se venisse utilizzato con le intenzioni di otto anni fa quando fu pensato. Invece specie al Nord (Piemonte, Lombardia e Veneto) le aziende edili pagano così un po’ ovunque manovali e carpentieri per l’intero delle 40 ore settimanali. E se l’aritmetica non ci imbroglia, un lavoratore pagato in questo modo per arrivare a una pensione di poco superiore ai 500 euro mensili deve accumulare tra i 100 e i 105 anni di voucher col sistema pensionistico contributivo: serve in pratica una vita e mezza. Il tozzo di pane con brodaglia che si dava nei campi all’indomani dell’Unità d’Italia aveva forse una tasso di dignità paritetico.

Insomma, il voucher doveva rimanere “cameo”, non ergersi ad attore protagonista. E il Jobs Act, che ha sì stabilizzato qualche scrivania, saldatrice o falciatrice, ha reso però tremolanti milioni di scarpe antinfortunistiche, affettatrici, palette, secchielli e parannanze. Bisognava andare con la scure sullo zavorrante mix di tasse che rende dissanguante per chi fa impresa autografare contratti a tempo indeterminato. Invece si è preferito usare il coltellino svizzero per fare solo qualche taglietto. Infine: si sono tolti diritti a chi ne aveva (oggi licenziare è una passeggiatina) ripetendo la tiritera sognante di darne di più a chi non ne aveva. Finora non è così manco un po’ e la repubblica fondata sul buono pasto lo dimostra.

Valerio Mingarelli