STANCHEZZE ED APPARATI

A maggio si fa il conto con tante cose: la stanchezza, la perdita di motivazione, il desiderio di fuga. Non solo per chi lavora nella scuola ma credo un po’ per tutti, dopo un anno di lavoro, impegni, responsabilità più o meno gratificanti, più o meno serenamente accettate. Ad aggiungersi a ciò c’è la prospettiva della dismissione, della pausa dell’estate prossima che appare invece come un orizzonte lontano. Credo però che uno dei motivi più incalzanti e sottilmente perniciosi della stanchezza che tutti ci pervade vada individuato nella perdita di senso del nostro vivere sociale e professionale. Forse in chi esercita professioni intellettuali questo sentimento rischia di debordare ma credo che esso sia in tutti. Innanzitutto perché nella stanchezza professionale riverbera la nostra perfetta superfluità. A chi non è capitato di riflettere sul fatto che “anche senza di noi l’ufficio, la classe, lo studio, andrebbero avanti lo stesso”? Qui vi è una ragione profonda da esplorare poiché la forte innovazione tecnica del lavoro ha reso sempre più minoritari i compiti di elaborazione intellettuale, di creazione di libertà simbolica, per moltiplicare invece i protocolli di controllo e le applicazioni standard dei processi di adattamento alle consegne.

C’è un libro del visionario americano P.K. Dick dal titolo profetico di “Cronache del dopobomba” dove in un mondo sopravvissuto alla catastrofe, Hoppy Harrington, un focomelico privo di braccia e gambe riesce a controllare attraverso le onde radio e altri apparecchi tecnologici la vita della comunità in cui vive. Ora la tecnologia che domina le nostre vite e il nostro lavoro ha il viso e le forme di Hoppy Harringhton, un viso alieno e molto distante dall’umano. Quello che appare più duro da ingoiare è che questo apparato ha cancellato quasi completamente l’immagine dell’uomo che avevamo: quello dell’individuo completo, cosciente, critico e in perfetta padronanza delle sue libertà. Nella scuola, forse più che altrove, questo processo di adattamento è a dir poco totalizzante, ne fanno le spese gli studenti più creativi e gli insegnanti “contrastivi”, cioè meno adattabili agli standard, con le conseguenze che tutti possono immaginare: un impoverimento di humus sociale e un depauperamento delle differenze (intellettuali emotive, percettive, soggettive).

Sembra pazzesco ma quello che sosteneva Tocqueville e cioè “che ogni individuo porta con sé dalla nascita un diritto uguale e intangibile a vivere indipendentemente dai suoi simili in tutto ciò che lo riguarda personalmente e a regolare da sé il proprio destino” oggi è diventato una pericolosa tara. Dunque l’obiettivo di ogni forma di umanesimo e cioè formare un individuo capace di scegliere il suo posto nel mondo, anche rispetto al suo tempo e agli altri, oggi è diventato per gli apparati della tecnica il vero nemico da battere. Non possiamo non accorgercene quando riflettiamo sulle nostre specifiche forme di stanchezza. Il passaggio dalle società disciplinari che utilizzavano forme di violenza più o meno diretta alle società di controllo che si limitano a regolarizzare in noi meccanismi libidici o emotivi è ormai un dato di fatto.

Sarebbe bello allora prima di incolpare le nostre debolezze che riuscissimo a intravedere chi è il vero nemico da battere. Prima di prendercela con i nostri esaurimenti magari riflettere e pensare che la stanchezza è l’unica risposta ancora umana che i nostri organismi proiettano contro gli apparati. “Io sono stanco perché sono ancora vivo”. E’ il caso di pensarci.

Alessandro Cartoni