DIECI DI’ DI “DONALDO”: RIDICOLO PUBBLICO NUMERO UNO? FORSE, MA AI PIU’ PIACE

Venerdì 20 gennaio. Mi trovo a seguire con tanto di Peroni e diversamente sane patatine da 30 centesimi l’etto (consapevole che non mi avrebbero creato più danni delle cose che andavo ad ascoltare) la cerimonia di insediamento di “Donaldo” Trump. A parte la liturgia da avanspettacolo, i barriti razzistelli e demagogici e le “pulcinellose” promesse di nuova età del platino per il made in Usa, di dazi per i forestieri, di addii a patemi e preoccupazioni e di fontane che danno vino, debbo dire che tutto scorre come mi aspettavo. Incluso il broncetto di quel ben degli dei di nome Melania (lo sfarzo della Trump Tower, dove rimarrà mentre il marito stazionerà a Washington, val bene una rozza messa). Tutto secondo copione dunque: essendo tra coloro che hanno sempre trovato poco avvincente il fare ruttante e il linguaggio del corpo da comparsa del Bagaglino dello smargiasso tycoon, di fastidioso all’indomani del suo approdo trolley in mano alla Casa Bianca odo solo le cantilene dei tanti merli urlanti che mai avrebbero pensato di vederlo vincere e ora spremono le tonsille dal nervoso. In fondo gli Stati Uniti sono (almeno a chiacchiere) la più grande democrazia del mondo, gli americani se lo sono votato e tutti questi brusii, ad ogni latitudine e anche da parte di noi peninsulari che tanto abbiamo da pensare alla nostra sgangherata classe politica, francamente sanno di bue che va a dare del cornuto all’asino.

Lascio quindi Donaldo alle sue beghe di là dell’Atlantico e torno ad occuparmi delle cose nostrane che più mi competono. E di faccende a stelle strisce, soltanto di basket Nba, collaborando per alcuni portali per malati della palla a spicchi. Sabato 28, come ogni mattina, prima di aprire la rassegna stampa mi sparo i risultati cestistici d’Oltreoceano. Su Nba.Com, mi va l’occhio su un titolo “Milwaukee Bucks in ansia per Thon Maker”. “Si sarà rotto”, inizio a pensare, ed entro nel link per capire. Allora: Maker è un pennellone filiforme di 19 anni al primo anno tra i pro. Ha studiato ed è cresciuto in Australia, ma ha una particolarità: è nato a Giuba, nel Sud Sudan. I Bucks hanno appena giocato (e perso) a Toronto, e arrivati all’aeroporto per rientrare dal Canada hanno scoperto che chi è nato in quello e in altri sei paesi a maggioranza musulmana (Arabia, Egitto e Tunisia, dove il Trump affarista macina milioni, ovviamente esclusi) a ore si vedrà ritirata la “green card”, passpartout per approdare in suolo statunitense. Motivo? Donaldo la notte stessa ha varato il suo primo “muslim-ban”, annunciando che ne seguiranno altri. Maker è comunque riuscito a salire sull’aereo, ma la vicenda sui social impazza e la solidarietà verso il perticone di origini africane non vi dico. Apro i vari siti tipo Repubblica, Corriere e via dicendo, e in tutti campeggia il ciuffo al betacarotene di Donaldo e le proteste in giro per mezza America.

Non solo: in uno dei vari catenacci, leggo che il premier messicano Nieto, per nulla impaurito dai latrati gutturali dell’inarrestabile rossiccio, dopo la sparata sul muro non si presenterà all’incontro con lui, che oltretutto va blaterando che le spese edilizie di cotanta opera dovrebbero sobbarcarsele proprio i dirimpettai messicani (in pratica, è un po’ come se uno con la jeep falcia un pedone e poi gli chiede i danni per la carrozzeria). Il week end prosegue col fil rouge dell’amore fraterno: domenica 29 attentato alla moschea di Quebeq City. Che c’azzecca, direte? Pare un caso di cronaca nera internazionale come tanti, ma non lo è, perché i 6 morti e 12 feriti sono opera di un giovane francofono di nome Alexandre Bissonnette, incensurato sulla cui pagina Facebook campeggiano però non solo contumelie anti-Islam, ma soprattutto una selezione “gold” di tutte i “versetti” xenofobi di Donaldo degli ultimi 12 mesi (oltre a qualche post di giubilo su Marine Le Pen). “Va beh, lupo solitario dai” – penso. Intanto, opinionisti di ogni ordine grado cominciano a portare in rilievo una particolarità alla Casa Bianca: mentre Donaldo muggisce, il timone dello studio ovale lo tiene saldo in mano Steve Bannon, razzistone di lungo corso che negli anni ’70 militava nelle file dei Democratici (!?) per poi virare verso crociate anti-abortiste, campagne misogine e profondissime invettive sessiste. Un personaggio di quelli per cui il Ku Klux klan è un’allegra brigata e con anni di torbide scorribande in Goldman Sachs nel pedigree (alla faccia del Trump anti-establishment), che ora si ritrova a fare il Rasputin del nuovo presidente. La cui ciliegina sulla torta però arriva proprio ieri notte, con una sorta di reality show imbastito alla Casa Bianca per la scelta dell’atteso giudice della Corte Suprema, con tanto di profili Twitter simili creati ad hoc per i due candidati al fine di saggiarne il gradimento (l’ha spuntata Neil Gorsuch dal Colorado). Roba da gioco aperitivo in un villaggio Valtur anni ’90.

Dunque: nei primi dieci giorni sulla plancia di comando del globo, Donaldone ci ha già dato un saggio dello sguaiato, irrefrenabile e sbraitato show che ci attende: passi Maker che presto diventerà milionario o il cane sciolto di Qebeq City fan di Donaldo, ma se il buongiorno è questo il mattino si preannuncia da tregenda. Per questo fanno un po’ sorridere i tanti analisti che dopo il l’amaro antipasto ancora minimizzano approcciandosi a lui come si fa col meteo con tenore tipo “bazzecole: oggi ha tuonato, ma domani tornerà il sole”. L’impavido amante del wrestling è una iattura (e ancora manca all’appello la lenzuolata neo-protezionista in materia economica) e lodare la sua coerenza rispetto alla campagna elettorale in realtà diventa falsa coscienza, perché se uno promette una cazzata e poi la mette in atto l’essere coerente non dà plus-valore. Detto ciò, fanno ancor più ridere tutti i pasdaran che da lustri ammiccano al dogma no-global che in questi giorni brandiscono il tanto vituperato frappuccino di Starbucks o le fighette canotte Nike soltanto perché le major in coro lanciano dardi contro il neo-eletto. Incluse Facebook e Google, grammofoni perfetti in autunno per irradiare le quintalate di bufale che hanno contribuito e non poco alla sua rimonta sull’altrettanto impresentabile Hilary. Invece di lagnarsi a ogni boiata e di gridare all’apocalisse, bisognerebbe piuttosto chiedersi perché (come hanno evidenziato con numeri Reuters prima e LA Times poi) Donaldo piace alla maggior parte degli americani, ma anche alla maggioranza degli italiani (nel sondaggio di SkyTG24 di ieri pomeriggio addirittura al 67%). Facendo magari un rewind sull’Occidente di inizio millennio e sulla sua avaria economica, sociale, culturale ed umana. E sulla paura come sentimento trasversale che attraverso tutti i segmenti del quotidiano. Vengono fuori sinistri grattacapi. Roba da psoriasi.

Valerio Mingarelli