PREMI NO-BEL(LI): A HUSAIN BOLT PER LA FISICA NO?

“A morte il musico. Al rogo armoniche e chitarre!”. “Bene, bravo, like, doppio like, like a rolling stones!”. All’accademia scandinava, che nella stagione delle foglie morte mette ogni anno l’aureola a scrittori, politici, scienziati e a bipedi sempre più variegati del genere umano col “patrizio” premio intitolato ad Alfred Nobel, va dato un merito: averci tirato via per una settimana dai belluini cori da stadio tra gli ultras del “Sì” e i commandos del “No” della “Lepanto” referendaria. Dalla padella però i paludati svedesi c’hanno scaraventato direttamente sulla brace: la disputa sul Dylan-letterato si è tramutata subito in baruffa incazzosa, appassionante all’incirca quanto la striscia quotidiana del Grande Fratello Vip.

Dopo sette giorni i bollori si sono sopiti e con gli animi tornati a temperatura ambiente è possibile mettere la definitiva chiosa sulla faccenda.  Ampliando l’analisi sul ruolo che l’onorificenza voluta dall’inventore della dinamite ha avuto e ha oggi. La “corona” di letterato a Robert Allen Zimmerman è innanzitutto tema non deputato a togliere il sonno a nessuno (a quello pensano i numeri color sterco diffusi ieri dall’Inps sull’occupazione italiana): può starci. Sul fatto che il riccioluto del Minnesota sia una divinità del pentagramma, pochi dubbi: la sua discografia (da The Freewheelin’Bob Dylan fino all’ultima fatica Fallen Angels) è un “viaggio” lungo 54 anni e un monumento alla musica leggera. Così come alcuni suoi brani (si pensi a Blowin’ in the wind o a Knockin’ on Heaven’s door) sono nell’immaginario uditivo mondiale più di quanto l’Ave Maria faccia parte dell’inventario verbale di un convento di suore carmelitane. E se in 50 anni di concerti ha accarezzato il blues e il rock and roll, il country e lo swing (e tanto altro), le sue doti di paroliere sono altresì uniche, innovative e luminose. Il discorso però è tutto lì: nell’iperuranio Dylan ci sta già e da decenni. Di premi, coppe e coppette a casa ne ha un de profundis e vanta anche un sorprendente premio Pulitzer (manca solo la canonizzazione bergogliana a San Pietro). Questo riconoscimento non aggiunge nulla alla sua magnificenza, anzi ci consegna l’ennesimo alloro alla carriera a una superstella sì ancora energica, ma con una spocchia che ormai fa provincia. Alessandro Baricco, altro figuro la cui boria esonda più spesso del Po (non tanto però da farlo ambire a un Nobel, pur essendo narratore egregio con primizie quali Castelli di Rabbia a Senza Sangue), ha ragione sacrosanta. Non tanto nei toni, quanto nel succo della questione. E con lui il giovane astro nascente del thriller made in Usa Jason Pinter (che non c’entra una mazza col Pinter drammaturgo britannico “nobelizzato” nel 2005) il quale ha chiesto spassosamente l’inclusione di Stephen King nella Hall of Fame del rock. L’aureola letteraria sul capo di Dylan è una rasoiata profonda all’avambraccio di tutti quei romanzieri, poeti, epigrammisti, sceneggiatori, glottologi e commediografi i cui varchi di visibilità diventano sempre più strette feritoie. Inoltre sa di incentivo “a lasciar perdere” e a mettere in soffitta carta, penna e calamaio per chi con le sole parole, senza altri ingredienti o orpelli di sorta, prova ancora a veicolare messaggi o ad instillare emozioni.

Chiusa la diatriba e in attesa che il re dei menestrelli risponda (magari con un’emoticon su WhatsApp) ai vichinghi che lo cercano disperatamente da una settimana, bisogna togliersi però la maschera contrita dal volto: quello a Dylan non è il Nobel più scandaloso della storia, né il più controverso. Persino in questo 2016: il battibecco dylaniano su scala planetaria ha fatto passare sotto traccia quello per la pace al presidente colombiano Juan Manuel Santos. Uomo di raro spessore che giusto qualche settimana fa, inaspettatamente, ha però preso una legnata epocale al referendum che doveva spianare la strada all’accordo di pace con le Farc, principali responsabili di mezzo secolo di guerra civile. Il popolo colombiano lo ha gabbato: alla pace a Bogotà e dintorni hanno preferito evitare di vedere energumeni che fino a ieri imbracciavano mitragliette togliersi la mimetica per il doppiopetto necessario per l’accesso al Congresso. Insomma, grande, grandissimo Juan Manuel, però sul fronte della pace sei un mito solo per l’Accademia di Svezia. Per la tua gente hai fallito.

Dunque sto Nobel dopo oltre un secolo pare un po’ bolso e annacquato. Sarà il mondo che è strano, però gli accademici in mezzo a tante scelte azzeccate in 115 anni sono andati fuori tema più e più volte, e la sfilza di pecionate (alcune in buona fede, altre meno) è lunghetta. Il chimico teutonico Fritz Haber si beccò il Nobel per la chimica nel ’18 per essere riuscito a sintetizzare l’ammoniaca, ma fu lo stesso che tre anni prima convinse l’esercito tedesco a provare durante la Grande Guerra il gas cloro, arma chimica che lasciò sul selciato di Ypres (Belgio) centinaia di migliaia di cadaveri inceneriti. Nel ’49 venne il turno di “Mister Lobotomia”, insignito del premio per la medicina: il portoghese Edgar Moniz. Quale miglior panacea per curare i matti che trapanargli la calotta cranica in più punti recidendo giusto qualche fascio di fibre nervose? Facilissimo, non fosse per le migliaia di squinternati ridotti a vegetali fino al cammino per il camposanto: fortunatamente pochi anni dopo farmaci ad hoc ci misero una mezza pezza. Singolare anche il Nobel per la Fisica del ’74 all’astronomo Anthony Weish, che scoprì le pulsar (stelle rotanti di neutroni). La prima ad avvistarne una fu la sua allieva dottoranda Jocelynn Burnell, ma va beh, sottigliezze: il medaglione se lo cuccò lui. Sul Nobel per la pace di storture ne abbiamo a go go. Nel ’73 fu la volta di Henry Kissinger, predatore di razza dell’amministrazione Nixon. E pazienza per la lunga trafila di colpi di Stato da lui pilotati in Sudamerica, con la chicca del sostegno al truculento cileno Pinochet giusto un mese prima dell’incoronazione svedese. Nel 1994 l’aureola ex aequo al trio Rabin-Shimon Peres-Arafat, mentre a Gaza continuavano a saltare in aria donne e bimbi a tutte le ore del giorno, creò un caso politico globale. Così come rimase una macchia nera, anni prima, aver lasciato all’asciutto il povero Gandhi dopo cinque nomination (una roba alla di Caprio con gli Oscar fino a pochi mesi fa). Infine ci si chiede ancora perché nel 2009 appena approdato alla Casa Bianca sul trono dei “pacifici” ci finì Barack Obama, allora privo di meriti e rimasto sguarnito degli stessi pure dopo, visto il doppio mandato da spettatore inerme con tanto di pop corn su ogni grande vicenda internazionale. Potremmo continuare oltre e anche al nostro mirabile Dario Fo in molti nel 1997 non risparmiarono stilettate per il suo status di giullare. Però suvvia, sti Nobel belli o brutti che siano lasciano sempre il tempo che trovano. Finché non arriverà quello per la fisica (solo per averne sfidato le leggi) al felino di Giamaica Husain Bolt. Allora avremo fatto cinquina, decina e tombola.

Valerio Mingarelli