L’ORLANDO FUMOSO E LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA IN FREEZER: ‘PRENDI UNA TOGA, TRATTALA BENE’

Il referendum costituzionale a due mesi dall’apertura dei seggi è già come Pac-Man, la creatura sferica gialla del videogioco-cult anni ’80 della Namco: divora tutto ciò che incontra sulla sua strada. Nei buodoir televisivi o nelle cavee degli affrescati palazzi della politica, poco cambia: lui (il referendum) fagocita ogni cosa. A tutte le ore. In tutti i luoghi e in tutti i laghi. Portando ad una sorta di apoplessia larga parte degli italiani. Tanto da trasformare la caotica tenzone tra il panzer del risorgimento costituzionale Matteo Renzi e il “supermassimo” dei costituzionalisti nostrani Gustavo Zagrebelsky in un media-event: una specie di remake dell’incontro di boxe tra Nino Benvenuti ed Emile Griffith sul ring del Garden di New York (era il 17 aprile ’67). Allora come venerdì, tutti imbambolati davanti al piccolo schermo nel nome dell’antica liturgia del duello. Con un diversivo: all’indomani stavolta è arrivato un allarmante boom di orchiti per la gragnola di tweet, post, titoloni e recensioni del match sul ring di Mentana.

E’ un braciere ardente questo referendum: scalda i cuori dei due drappelli ultras del “Sì” e del “No”, ma continua a incenerire tutto ciò che è “altro” nell’agone politico. Eccezion fatta per il Campidoglio, diventato però un “antistadio” della partita referendaria (i tormenti della giunta Raggi sono il pungiball perfetto per i supporters del “Sì” essendo il M5S la forza politica più nutrita che parteggia per il “No”). I tizzoni pulsano e le fiamme si propagano: così, tra un comizio incendiario e l’altro, anche a Matteo Renzi ogni tanto tocca correre a mettere qualcosa nel freezer. Sette giorni fa è toccato alla riforma della giustizia, provvedimento che dopo 26 mesi di gestazione resta ancora impantanato tra gli scranni color rosso carminio del Senato. Qui, però, è doveroso un piccolo “rewind”.

Vecchio pallino degli ultimi 623 governi, la riforma della giustizia è un po’ come la sora Camilla: tutti la vogliono ma nessuno se la piglia. Inoltre crea sempre una noiosa sequela di polemiche, sin da quando Appio Claudio, nel V secolo avanti Cristo, cercò di far capire ai romani che per evitare la mala-giustizia bisognava formarli (ed esaminarli) sti benedetti giudici. Ma tant’è: ad ogni cambio di guida a palazzo Chigi è sempre il primo spot. “Basta magistratura politicizzata!”, “Cambieremo tutto!”, “Al rogo toghe e parrucche!” e menate simili. Poi però, vuoi per le lagne dei magistrati e del mastodontico carrozzone giudiziario, vuoi perché la fronda di parlamentari, consiglieri regionali e sindaci inquisiti si allarga ogni anno come il buco nell’ozono, finisce sempre tutto a tarallucci (pochi) e vino (tanto): qualche provvedimento ad hoc qua e là, giusto per aumentare la tanto bramata paralisi del sistema.

L’attuale ministro della Giustizia, il mellifluo genovese Andrea Orlando, si dimena da un biennio come un’impala asserragliata da più branchi di pantere nella angusta savana della giurisprudenza made in Italy. Leader nel PD dei “Giovani Turchi”, accolita che comprende i 40-45enni meno rapaci ma assai agili nel tramestio partitico (prima dalemiani, poi bersaniani, ora renziani), al netto del timore che sfora l’ossequio nei confronti di Renzi, per mesi ha mostrato spesso canini aguzzi. Soprattutto nei confronti dell’Anm (Associazione nazionale magistrati), da almeno due decenni maestra nel prendere a colpi di bazooka ogni tentativo di riforma dello status quo.

Che lo stato della giustizia italiana sia comatoso lo sanno anche le piante: 150 mila processi all’anno “falciati” dalla prescrizione, tempistiche dei procedimenti vicine alle calende greche, Consiglio superiore della magistratura specchio del vorticoso correntismo dei giudici, codici di procedura civile e penale inzeppati di fronzoli inutili negli anni, procure prive di personale: potremmo continuare fino a Pasqua 2017. Orlando due anni fa è partito malissimo con l’Anm, spiattellandole una striminzita slide in 12 punti stile Mosè sul Sinai (copyright renziano, manco a dirlo). Da allora però ha fatto valere gli artigli, strattonando da una parte gli alleati poco felici di risvegliare il paziente “giustizia” dal coma (Alfano e Verdini su tutti, alle prese con stormi di compari indagati), dall’altra appunto l’Anm guidata ora dal “pasionario” Piercamillo Davigo, disco rotto nel bollare come “ciofeca” ogni comma della nuova misura.

Tra mille peripezie, per l’Orlando “fumoso” erano finalmente arrivati i giorni del tripudio e l’ora di portare a casa il testo uscito dalle commissioni. Un testo con tante ombre (per sveltire i processi non basta accorciare i termini, inoltre le intercettazioni non devono finire sui giornali ma nelle indagini servono) e qualche luce (l’imprescrittibilità dei reati contro la pubblica amministrazione), ma pronto per l’ok degli stremati (sul tema) senatori. Ala e Verdini usciranno dall’Aula? “Il pallottoliere, i regoli, Paolo Fox e Urano in Bilancia dicono che se mettiamo la fiducia ce la facciamo lo stesso” – tuonava Orlando martedì scorso col cranio fumante per la conta. E invece, chi ti arriva a rompere le uova nel paniere del piccolo Guardasigilli? Ancora lui: il referendum. Renzi, che in questi giorni mangia petto di volpe anche per merenda, sapeva di non poter scatenare ora il parapiglia con l’Anm, rimasto neutrale sulla riforma della Costituzione. Poi a Palazzo Madama ogni voto è un pulsare di ghiandole sebacee: coi numeri risicati non si scherza. Se andava sotto, bye bye vittoria del “Sì”: un inciampo da evitare. Dunque, testo nel freezer: il referendum ha vinto. Se poi il “Sì” prevarrà, la riforma della giustizia verrà scongelata per essere prontamente impallinata dalla minoranza Dem. Se vincerà il “No”, buonanotte ai suonatori.

Valerio Mingarelli