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E LA LUPA BUSSO’, ALLE PORTE DEL C.I.O… ENTRA PURE, LEI RISPOSE DI NO

Mentre a Palazzo Senatorio prosegue forsennato il casting per individuare un nuovo assessore al bilancio (vagliate, tra le altre, una 19enne di Centocelle uscita dal liceo scientifico Isacco Newton con 10+ in algebra), a Roma il M5S prova a scacciare le nubi del suo settembre nero. Della baraonda attorno al Marco Aurelio in questi giorni si è detto di tutto: sotterfugi, bugie, supercazzolette, mail galeotte, pigiama party e summit carbonari hanno trasformato il Campidoglio in una riedizione di casa Forrester (le cui trame ci ammorbano le parti care in tv da tre decenni). Non senza strafalcioni giornalistici, come la diaspora Raggi-Vaticano montata prendendo spunto da un boxino sul meteo dell’Osservatore Romano (il confine tra fischi e fiaschi mai stato tanto labile). Ora si guarda avanti, nonostante un puzzle amministrativo con diversi pezzi mancanti. Al netto della falsa partenza, i pentastellati sono usciti dalle urne primaverili con cifre bulgare e una falange armata di 29 consiglieri comunali che consente (almeno per ora) alla prima cittadina di dormire su un guanciale non troppo ruvido.

Resta però alla base una questione, che da giugno è lo strato friabile di pasta frolla sul quale poggia la traballante torta grillina: le Olimpiadi del 2024. Grillo sul suo blog ha già chiuso con la cera lacca la questione, Di Battista ha paragonato i Giochi a una pandemia di aviaria, e pure Di Maio (seppure a molari stretti) ieri dal divanetto di “Politics” ha ribadito che la fiamma olimpica in riva al Tevere non c’ha d’arrivare. Nessuno dei tre signori sopracitati però ha la fascia tricolore addosso: chi deve decidere è Virginia Raggi. La quale in campagna elettorale ha elargito bronci e pupille inorridite ad ogni domanda a cinque cerchi, ha saltato a piedi pari il viaggio illustrativo a Rio e si è celata almeno una cinquantina di volte dietro all’aforisma ridondante “le priorità dei romani sono altre”. Però, alla fine della veglia, un “no” secco non lo ha fatto ancora uscire dalle sue soavi corde vocali. E il motivo è presto detto: nel suo “nì” c’è la consapevolezza di non potersi rimangiare il polpettone anti-olimpico cucinato nel corso della cavalcata elettorale, ma anche la paura di ciò che il diniego potrà portare.

Lei si è data tempo fino alla chiusura delle paralimpiadi, che tra pochi giorni però faranno calare il sipario. La congrega del caviale rosè e del Pommery ghiacciato, capitanata dai consoli del glamour Malagò e Montezemolo, ha dispensato sorrisi imbonitori e dichiarazioni al caramello per un trimestre al fine di raggiungere la “captatio benevolentiae” della sindaca. Malagò si è detto persino disponibile a passare nel tritacarte il progetto del villaggio olimpico a Tor Vergata (etichettato da lei come “terrificante”) e a trovare un’altra area dove dare alloggio ad atleti, nuotatori, vogatori e cavallerizzi. Però una risposta la vuole subito. La Raggi in realtà avrebbe tempo fino a febbraio per spedire una missiva al Cio (il Comitato olimpico internazionale, ndr) nella quale nega le garanzie economiche di Roma Capitale per l’evento, ma chi tiene le briglie del carrozzone “Roma 2024” vuole capire se ci sono i margini per continuare la corsa oppure no.

E qui si torna al “nì”: la prima donna issata su quel colle dopo quasi tre millenni sa che la base del Movimento che l’ha portata in trionfo farebbe carne di porco di lei e dei suoi compagni di squadra nel caso di un voltafaccia. Tanto che ogni dittongo di apertura olimpica uscito dall’ugola di Paolo Berdini, l’urbanista considerato uno dei “bomber” della giunta, è stato sminuzzato dagli attivisti e fatto ringoiare all’anziano professore. Dall’altra parte, la Raggi è conscia già di avere in fondo all’Ara Coeli un battaglione di piromani (armati anche dalle opposizioni, ndr) pronti a gettare taniche di nafta sui carboni già ardenti sopra ai quali cammina nei corridoi del palazzo. E che dopo 18 secondi da quel “no” che dovrà giocoforza pronunciare, verrà crocifissa. Letteralmente. Magari nella sala mensa dove pranzano i manovali di Caltagirone.

La questione non riguarda soltanto avvoltoi e i palazzinari pronti a sbranarsi gli appalti per i lavori della kermesse: nell’Urbe gli occhi strizzati alla fiamma decoubertiniana sono in aumento. Non tanto per la cascata di miliardi di euro (circa 3,5) che arriverebbe dal rubinetto del Cio: a fronte di un dossier che stima in 5,3 miliardi il costo della faccenda, la parte mancante sarebbe comunque a carico della collettività. Ed è tanta grana. Neppure per i posti di lavoro, che il tandem salottiero Malagò-Montezemolo stima ottimisticamente in 170 mila unità. Piuttosto per una ragione, dettagliata giusto ieri da Sports Illustrated: se proseguirà la corsa, Roma avrà la strada spianata per la vittoria. Con le quotazioni di Parigi in picchiata ormai da un anno dopo la nefasta notte del Bataclàn per ragioni di ordine pubblico e con Budapest mai considerata vera pretendente (dare i Giochi a chi alza muri e staccionate, oltre a puntare carabine di fronte a ogni turbante, non è cosa), l’unica avversaria vera è Los Angeles. La cui candidatura però rischia di rimanere azzoppata dopo la guerra di dossier che il comitato olimpico a stelle e strisce ha scatenato contro la Russia prima di Rio (prontamente ricambiato dagli spioni di Putin). Spy-story che a tutt’oggi apre uno scenario di boicottaggi salmastri stile anni ’80, quando l’aria si affettava col coltello per via della Guerra Fredda. In molti dunque si stanno convincendo che, disastro per disastro, tanto vale tentare, e sti cavoli se ad ora gli unici sport praticabili a Roma sono il salto della buca per strada e la lotta greco-romana con gli acari in tram. La Raggi ha una paura fottuta di passare (nel cazzaro storytelling cittadino) come quella che ha detto “no” a una grande opportunità oltreché a una vagonata di miliardi.

E qui sta il frittatone a monte. Vinte le elezioni, l’alfiera M5S avrebbe dovuto fare una cosa sola: coinvolgere i romani. Un referendum sulle Olimpiadi, peraltro caldeggiato con una campagna semestrale dai Radicali Italiani e talvolta pure da lei, sarebbe stato la scappatoia “ponziopilatesca” per staccarsi di dosso la roulotte colma di responsabilità che una decisione simile comporta (sulle ali dell’entusiasmo del trionfo alle urne, il “no” ai cinque cerchi avrebbe vinto facile). Si sarebbe forse anche risparmiata qualche rovescio di questo settembre turbolento sulla sua testa. Ora è tardi: tornare indietro rispetto a quanto urlato ai quattro venti non si può, e il rischio di passare ancora mesi con l’idrante in mano a spegnere i focolai che gli appiccheranno intorno dopo il “no” è altissimo.

Valerio Mingarelli