LA PASQUA DEL SIGNORE RACCONTATA DA BALILLA BELTRAME

Si avvicina Pasqua e ritornano una serie di tradizioni ed usanze che risalgono alla notte dei tempi della nostra gloriosa ed amata “Favrianesità”. E quando si parla di Fabriano, della sua storia e delle sue consuetudini, anche le più bizzarre, con gioia si alza il telefono e si chiama Balilla Beltrame, il grande Balilla dalla memoria di ferro! Ecco di seguito, raccontata da Balilla, la “Pasqua del Signore” di noi fabrianesi che, nonostante la crisi che ci attanaglia, amiamo non rinunciare a questi riti non solo religiosi ma anche eno-gastronomici che tanto allietano i nostri palati da secoli. Forse, per dirla in fabrianese: “Era mejo quann’era peggio!”

“Non c’è più la Pasqua di una volta!” Già durante la settimana Santa le donne di casa sodavano le uova per metterle in bella mostra insieme agli altri cibi, sulla tavola apparecchiata con la tovaglia ricamata del corredo, quando passava il prete a benedire. Venerdì santo, digiuno e astinenza, durava fino a mezzogiorno del sabato quando “scioglievano” le campane. Il suono si mischiava con gli spari dei monelli. Un solo pasto senza vino, per gli adulti della famiglia: erbe cotte, due sardelle o baccalà arrostito, pane di granturco. Domenica, di prima mattina,a digiuno, tutti alla messa pasquale, comunione di precetto, dopo la confessione obbligatoria. Il digiuno notturno del corpo, una sorta di purificazione per accogliere l’ostia santa. Un bacio ardente fra due fidanzati rompe il digiuno? Angosciante interrogativo di un parroco di campagna delle nostre parti, indeciso se annotarlo nella lista dei peccati. Dopo la funzione religiosa, di corsa a casa con la fame addosso. Uova sode, salumi, pecorino, pizze di formaggio e dolci. Caldo, uno spicchio di “frittata di uova, fette di pancetta, mentarella selvatica, aglio fresco, prezzemolo, “erba della Madonna”, menta romana, parmigiano grattugiato, olio, sale e pepe. A Matelica la “frittata con la menduccia” l’arricchivano con fette di soppressata di carne e di fegato tagliate a dadini. Anche oggi immancabile una padellata di coratella d’agnello insaporita con rosmarino, cipolla, succo di limone o una spruzzata di vino bianco. E già che c’è l’agnello, due pacche di testarella arrostita mica ci stanno male! Sì, vai a offrirle ai nostri ragazzi. Saltano dalla tavola disgustati, urlandoci addosso “assassini!”. L’atmosfera d’intimità familiare svanisce. Momentaneamente sazi e contenti, saranno ormai passate le dieci. A pranzo una cosetta leggera, brodo di gallina o “acqua cotta” cioè brodo di magro d’agnello insaporito con aglio, prezzemolo, pecorino grattugiato, uova intere; si versa sui piatti guarniti col pane benedetto, scottato, disposto a croce. L’agnello ha avuto sempre due popoli. O ti disgusta o diventa una droga. Chi regge il sapore forte, incurante dei rinfacci per tutto il pomeriggio, può assaggiare le “cannacce”, cannelloni ripieni con fegato e corata d’agnello ben tritati, conditi con”finto sugo”. La nostra tradizione pasquale è avara di dolcezze. Regina incontrastata delle tavolate ieri come oggi, la “pizza dolce”, parente ricca del pane, cugina di quella con i formaggi. Alla “massa” aggiungevano uova, zucchero, uvetta, canditi, strutto, rosolio di cannella, latte, lievito fresco, farina; lievitazione lunga sotto le coperte, poi nel forno ben caldo per un’ora buona. Sfornate, subito guarnite con glassa di chiara d’uovo, zucchero e un po’ di rosolio, confettini per allegria con la classica ciliegina al centro. I matelicesi preparavano le “ciambelle di Pasqua” lievitate con l’ammoniaca in polvere, come si fa da noi con le “paste della Befana”. Uova, farina, zucchero, olio al posto dello strutto. La misura “storica” delle ciambelle è di dodici centimetri di diametro. Fermentate cinque ore, subivano un brusco trattamento termico con l’immersione in acqua bollente, fino all’indurimento esterno della pasta. Quando avevano perduto il calore, le incidevano tutt’intorno. Riposate sotto un panno per dieci ore, completavano la cottura nel forno. La glassa era composta da uova battute a neve, zucchero e succo di limone. Faceva un figurone chi le regalava! I bambini le infilavano nel braccio e ci andavano a spasso. Immagino che queste ciambelle per la lunga, complessa lavorazione, siano nate dentro un monastero femminile. Lì il tempo è preghiera. Un “dolce” modo per celebrare la Resurrezione del loro Sposo, dopo le privazioni della Quaresima.

Usanze pasquali

Durante la settimana santa come da antica consuetudine, avveniva la pulizia radicale di tutta la casa, non tanto per l’igiene quanto per l’arrivo della benedizione dei cibi pasquali. Nelle campagne gruppi di musicanti e canterini portavano di casa in casa il triste “canto della passione di Cristo”, un modo corale, collettivo per prepararsi alla Resurrezione. Da mezzogiorno di giovedì a quello di sabato di questa settimana particolare “legavano” le campane, allora gruppi di giovani percorrevano le strade del castello con raganelle e battistangole, tavolette percosse col ferro. Simboleggiavano con questo strepito il tremare della terra, lo schianto delle pietre nell’ora della morte del Cristo. Molto seguita prima dell’unità d’Italia, la “Processione del Cristo morto”, con la statua della Madonna addolorata e figuranti in costume, seguita da uno stuolo di devoti, confraternite e ordini religiosi. Uno dei sette tradizionali santuari fabrianesi era la chiesa di Moscano dedicata a san Pietro, da visitare obbligatoriamente il giorno di Pasqua. Frotte di fabrianesi si recavano a piedi in questo ridente paese e, per antica consuetudine, a chi usciva dalla chiesa, si offriva un bicchiere di vino e un pane benedetto. Il lunedì di Pasqua avvenivano le tradizionali passeggiate a Cancelli e Marischio. Suoni e balli allietavano il pomeriggio. Nel 1875 avvenne a Marischio una grande rissa tra abitanti e fabrianesi. Forse esasperati dal comportamento spavaldo dei forestieri verso le ragazze, i marischiani li affrontarono con nodosi bastoni. Numerosi feriti, intervento dei carabinieri, un arresto. Nell’immediato dopoguerra, la monellara della piazza del mercato e della Portella festeggiavano lo scioglimento della campane con gli “schioppi” provocati dall’accensione di una miscela di zolfo e potassio acquistata in farmacia. Sembrava la guerra, non ancora dimenticata. Un personaggio caratteristico di quell’epoca un certo Flavio, forzuto dipendente del mattatoio, capace di uccidere un vitello con un pugno, un sabato santo preparò una vera e propria bomba. I numerosi spettatori, a debita distanza assistettero all’evento. Dall’alto del mercato coperto gettò una grossa pietra sulla polvere esplosiva. La possente detonazione fu avvertita in tutta la città. Una scheggia sfondò la porta della bottega di un fruttivendolo che poi andò su tutte le furie e Flavio fu costretto a pagare i danni.

Balilla e Gigliola