Roberto Carmenati: Non essere profeta in patria non è un limite ma uno stimolo

Allenatore di pallacanestro, con oltre duecento panchine nel campionato nazionale italiano, International Scout per la squadra dei Dallas Maverick (NBA), ha scritto per la FIBA (Federazione Internazionale Basket) il volume “Educating to basketball”, ha contribuito alla crescita della prima Accademia di Pallacanestro in Africa (Seed Academy Senegal), in giuria da diversi anni del Premio Nazionale Gentile da Fabriano. Parliamo del fabrianese Roberto Carmenati, non aggiungiamo altre presentazioni per un collega ed amico con il quale è sempre un onore ed un piacere confrontarsi dialetticamente, non solo per parlare di basket, ma per alcune riflessioni sulla città di Fabriano che meritano veramente un’attenta lettura.

Roberto sei un attento osservatore, non solo di giocatori professionisti ma anche di ambienti, situazioni, luoghi. Come vedi oggi la Città della Carta con lo sguardo di chi, girando il mondo per lavoro, può permettersi un giudizio franco e disinteressato?

Fa piacere, salendo le scale dell’aeroporto d Monaco di Baviera, come primo impatto, trovare il marchio Carta Fabriano, quasi a rammentare che Fabriano è la città della carta. Da quel momento in poi, qualunque sia la destinazione finale, Il resto del viaggio sarà accompagnato da molti pensieri che derivano da questa immagine familiare. Ovvero come Fabriano può continuare la sua storia industriale, puntando su nuove tecnologie per esempio; oppure come integrare una vocazione turistica che è emersa solo nei tempi più recenti ma che è ben lontana dall’essere compiuta. Allontanarsi da Fabriano, cambiare il punto di osservazione, aiuta a rivalutare i pregi della città, lasciando decantare i presunti difetti, di cui, troppo spesso, si parla nei conciliaboli cittadini senza poi far seguire dei cambiamenti. E’ innegabile che, in ogni viaggio, si notino tante cose che si vorrebbero copiare e riportare a Fabriano: lo spunto può essere il restauro industriale di una cittadina di provincia in Francia o la cura del verde e dei parchi o dei servizi urbanistici come trasporti e raccolta rifiuti o i presidi sanitari in Germania o nei paesi baltici. Aprire gli orizzonti, allarga le visioni e stimola la nascita di nuove idee. Sempre. Vale la pena ricordare che la città è quello che ti porti dentro, ovvero la bella città la fanno i cittadini e il loro atteggiamento. Gli allenatori della vecchia scuola insegnavano che non ci sono buoni o cattivi giocatori, ma, semplicemente, giocatori con buone abitudini o con cattive abitudini. Parafrasando, si potrebbe dire che una bella città è quella dove prevalgono i cittadini con buone abitudini.

La vocazione turistica di una città va costruita nel tempo e non si improvvisa. Secondo te Fabriano potrebbe avere i numeri per diventare appetibile a livello turistico? Cosa ci manca?

Numeri, proiezioni, strategie di promozione e comunicazione sono materia di esperti e professionisti. Concordo sul tema che la vocazione turistica non si improvvisa. Insisto nel dire che la differenza la fanno i cittadini. L’ospitalità’ e l’accoglienza sono tratti peculiari che appartengono ai fabrianesi, sono nella nostra natura andrebbero espressi, però senza complessi, con il sorriso caldo e accogliente, superando la timidezza che è un altro tratto caratteristico della nostra gente. Poi il prodotto, da poter mostrare con entusiasmo, c’è. Intendo una eredità di arte e cultura importante, una natura rigogliosa e ricca di spunti paesaggistici, uno stile di vita autentico, una posizione geografica centrale. Anni fa il New York Times invitava i suoi lettori a viaggiare nelle nostre zone, che chiamava il “marcheshire”, perchè potessero immergersi nello stile di vita italiano che si conserva ancora autentico, sano e genuino. Mi domando: quanti di noi fabrianesi descriverebbero cosi, Fabriano, ad uno sconosciuto? Allora la riflessione è che bisognerebbe lavorare di squadra, non solo con delle iniziative sporadiche individuali, ma tutte le componenti dovrebbero remare nella stessa direzione.

”Fabriano, una piccola città un grande amore”. Questo è lo slogan della squadra cittadina di pallacanestro, un’avventura che conosci benissimo. Che ricordi hai dei tempi d’oro del Fabriano Basket e del tuo mentore Giuliano Guerrieri?

Mi reputo fortunato, per aver avuto l’opportunità di trasformare la passione dominante della mia adolescenza nella mia attività professionale. Sono grato per questo a Fabriano, all’amore che aveva per questo sport, che ha creato un ambiente ideale per crescere. Giuliano Guerrieri mi ha dato fiducia quasi incondizionata, per un adolescente alle prime armi. Il suo, storico, vice Ugo Sghiatti, formalmente mi ha offerto il primo invito ad andare in palestra come apprendista allenatore. Quindi Vito Giuseppucci, per poi passare a Bucci, Carnevali, Mangano, Ceresani. Sono cresciuto nella bottega giusta, in parallelo con la parabola cestistica della città che si affacciava per la prima volta nel grande panorama cestistico nazionale. Fabriano contendeva a Cantù il primato della città più piccola della serie A1, ma Cantù non era paragonabile, aveva già vinto scudetti e coppe. Parallelamente, i confini delle mie conoscenze cestistiche si ampliavano gradualmente, fino alla dimensione internazionale. Erano anni di grande fermento, di crescita, di fiducia diffusa in città.

Come è cambiata la pallacanestro da allora, non solo in ambito internazionale, ma anche a livello locale?

In primo luogo è cambiato, nel tempo, il modo di selezionare e assemblare le squadre. Una volta le squadre erano costruite intorno a giocatori simbolo, le cosiddette bandiere, che sono sparite con lo svincolo dei giocatori. Poi è cambiata la figura dell’allenatore medesimo, non più elemento di riferimento per l’intera società sportiva, ma trasformato in gestore temporaneo, fungibile e non indispensabile. Infine sul piano tecnico c’è stata una crescita complessiva del livello atletico dei giocatori in campo, più specialisti tecnicamente e, contemporaneamente, nel gioco a 5 meno movimento di palla e uomini e più dominio del palleggio e del pick and roll. Le statistiche indicano, a tutti i livelli, un eccesso del tiro da tre punti e la contemporanea scomparsa del gioco di media distanza.

Un nostro comune amico e collega Gianni Quaresima ha scritto di te: “Luka Doncic è una sua scoperta e se Fabriano è popolare almeno in Texas il merito è tutto suo”. Cosa vogliamo rispondere a Gianni?

Su Doncic non rivendico nessuna scoperta, era noto a tutti e, seppur giovanissimo, un celebrato campione d’Europa con la Nazionale e con il Real Madrid. Rivendico, senza falsa modestia, di aver scommesso la testa e il mio lavoro su di lui, per primo a Dallas. Per congratularmi, inviai una e-mail al proprietario della squadra, al General Manager, a tutti i dirigenti coinvolti nella scelta, dicendo che Luka li avrebbe ripagati a suon di “doppie-doppie” e almeno 7 o 8 “triple-doppie”, già il primo anno. Una cosa che nessun giocatore aveva mai fatto prima e, quindi, da parte mia un’affermazione che poteva apparire velleitaria. Doncic vinse il premio di rookie dell’anno con 8 triple doppie.

Un proverbio popolare ma che suggella una grande verità “Nemo propheta in patria”, hai mai pensato che possa valere anche per Roberto Carmenati?

Professionalmente sono stato a Trapani, Livorno, Pozzuoli, Napoli, Milano, Dallas e ogni volta che ho iniziato un nuovo capitolo mi sono confrontato con questo modo di dire. La risposta è che si raggiunge la migliore dimensione professionale lontano da casa, lontano dalla propria comfort zone, dai riferimenti e dagli affetti. Solo lontano da casa puoi mettere il tuo lavoro al centro della tua vita, farne la priorità. Solo in quel modo puoi dire a te stesso, sei qui per fare il miglior lavoro possibile, per diventare il migliore allenatore possibile, per lasciare questa squadra quando avrai completato un progetto che tutti potranno riconoscere. Non essere profeta in patria non è un limite ma uno stimolo.

Gigliola Marinelli

Nella foto: Roberto Carmenati con Alberto Bucci al Premio Gentile 2018

 Nella foto: Roberto Carmenati con Alberto Bucci al premio Gentile 2018