SE MI LASCI.. NON MALE: LA ‘SCINDER LIST’ PD CONVIENE A TUTTI. E’ IL PROPORZIONALE, BELLEZZA!
In fondo, a pensarci bene, non è l’attesa della scissione essa stessa la scissione? La lunga, pedante e piuttosto cantilenante messa in scena “nazarena” delle ultime settimane ha vissuto martedì un atto finale che odora di dramma pastorale, senza nulla di melò e con l’epilogo dell’opera buffa più che della tragedia eschilea. Nella “giungla Dem”, col vituperato cucciolo d’uomo in trasferta “fighetta” nella californiana Silicon Valley e i vecchi lupi rossi tenutisi a debita distanza dalla tana madre, il proscenio è rimasto tutto per l’orso Baloo di Puglia, al secolo Michele Emiliano, che dopo un rosario trimestrale di nenie e di “vengo anch’io!” strillati ai lobi del suo luciferino conterraneo Max D’Alema, ha preferito togliersi le vesti del Jack Frusciante che esce del gruppo per mettersi addosso il consumato saio (tipico italiano) del voltagabbana.
“La gente non ci capisce” – è stata la corale straziante che i veterani hanno strillato di fronte ad ogni microfono Sennheiser presente a palazzo. Quando in verità, la fantomatica “gente” ha semplicemente rinvenuto nella telenovela democratica lo stesso interesse che si prova nell’osservare la vernice che si asciuga (che ce vòi fa). E pensare che la parola “scissione” nella storia della politica nostrana e in particolare della pacca sinistra dell’emiciclo ha avuto sempre significati particolari. Ed ha spesso rappresentato la spia (color rosso scarlatto, il più delle volte) di cambiamenti epocali. Guardando all’oggi, equiparare Bersani e Speranza a Bordiga e Gramsci (il tandem propulsore dello strappo livornese del ‘21 nel PSI turatiano che portò alla nascita del PCI) è un po’ come paragonare, rimanendo in tema di duetti, Simon&Garfunkel ai diversamente ammirati Nesli&Paba dell’ultimo Sanremo. Il villoso e profetico Filippo Turati, captando l’humus ideologico e la portata storica di quella fratturona, in quel gelido gennaio si rivolse con toni paterni ai transfughi. “La miseria, il terrore e la mancanza di ogni libero consenso in Russia produrrà decenni di patimenti e povertà, un paradosso per un Paese così ricco di risorse. Quando avrete impiantato il partito comunista in Italia, sarete forzati (lo farete, perché siete onesti) a ripercorrere la nostra via, la via dei socialtraditori”. I fatti non lo smentirono. Nel “crac” nazareno, 96 anni dopo, Renzi ha prodotto solo emoticon, risatine e spremute di zigomo. Ci è mancato solo un bel “portate un ciaone a Fassina e Civati eh!” come ciliegina sulla torta. I “fuggitivi” non sono stati da meno tra latrati, capriccetti e questioni di lana caprina (vedi la data del congresso, roba da spostati). Va boh, altri tempi. Così come le pulsioni e le questioni che nel ’47 portarono allo storico “bisticcio” tra i socialisti (di nuovo loro) Nenni e Saragat, col primo mai avaro di occhiolini verso il PCI togliattiano e il secondo intento a dar vita a un partitino (il PSDI) che, di riffa o di raffa, di lì in avanti avrebbe fatto da mini-trepiede a svariati governi a trazione democristiana. Allora, a carabine di guerra ancora fumanti, si scindevano due dioscuri dell’Italia del ‘900.
Oggi ci tocca invece vedere il botta e risposta da “bimbiminchia” tra Orfini e Speranza alla Camera e quello alla camomilla tra gli spettinatissimi Zanda e Gotor al Senato: il crepuscolo è evidente. Non c’è neppure un decigrammo di quel pathos da fine impero che si assaporò nel 1989, quando con i calcinacci del Muro di Berlino ancora da rimuovere alla Bolognina si fece partire il rullo dei titoli di coda su 70 anni di falce, martello e bottegone per poi nel ’91 ammainare per sempre la bandiera rossa (almeno quella per antonomasia). Qui, domenica e soltanto qualche ora, si sono ammainati solo i profili Twitter. Conclusa l’assise piddina, i queruli cinguettii sono ripresi a spron battuto.
Eppure la faccenda pare banale: questa più che una scissione sembra quasi una separazione di due rami d’azienda dettata dai tempi. Riavvolgiamo velocemente. Renzi, che non va considerato come l’irradiatore di tutti i mali del globo terracqueo, lo scorso 4 dicembre ha però rimediato una sprangata sugli incisivi che la metà basta. Di quelle che in un partito di massa della Prima Repubblica ti facevano finire in quarantena per almeno un biennio (o per sempre?). Lui invece, poco incline a giocare palla a terra e avvezzo ai lanci lunghi, ha tirato il pallone ancora più in là, proponendo ai suoi congresso-lampo ed elezioni prima di subito manco fosse un Salvini qualunque. Un po’ come se il PD fosse una cabinovia per risalire presto sul cucuzzolo della montagna (e sti gran capperi dei compagni di cabina). La piagnucolante minoranza PD, che ha sempre puntato i piedini e digrignato i dentini sin dalla defenestrazione di Letta, si è messa a questionare su cose di merito (vedi Cuperlo) oppure la ha buttata in puttanaio (il battutista D’Alema in primis). Quando la questione per molti (per chi poi fa il cronista nei dintorni di Montecitorio peggio mi sento) è un’altra, e ha parecchio a che fare con la decisione della Consulta sulla legge elettorale. Dare il bollino verde al proporzionale (che piaccia o no, marchingegno democraticissimo) lasciando i capilista bloccati ha dato il là a una sorta di “tana libera tutti”: il segretario mette in cima alla lista i suoi e manda gli altri a dar la caccia alle preferenze sul territorio (per non ritrovarsi nel pantano). Fine dei giochi? Manco un po’. Col premio alla lista e non alla coalizione, quelli della minoranza (che seppur passibili di TSO non hanno scritto “giocondo” sulla fronte) si son detti: se questo ci sbologna dalla direzione del partito, almeno tentiamo di preservarci lo scranno in Parlamento (chiamali cretini). E con una lista nuova, anche da 5%, ciò è fattibile. Rimanendo sotto le grinfie del ‘dominus’ gigliato, invece, tanti saluti.
Col proporzionale, con tale proporzionale, smembrarsi conviene a tutti: è anche questo il motivo per cui nel centrodestra i vari Berlusconi, Salvini, Meloni sbraitano senza fare mezzo passo fuori dalla propria aiuola. Il PD non fa eccezione, e come partito a vocazione maggioritaria va a finire in un fornetto con tanto di luce perpetua in un sistema proporzionale. Forse lo era già dal boom dei 5 Stelle, ad oggi unica vera forza numericamente di maggioranza relativa. Lo è a doppia mandata dal 4 dicembre. La vicenda delle liste (stando ai retroscenisti) spiega anche il goffo dietrofront di Emiliano, al quale pare sia stato garantito dai renziani che non infieriranno sul suo cadavere alle primarie, che non gli sfileranno lo sgabello di governatore della terra dei trulli e delle friselle, e che forse (sempre in Puglia) potrà avere pure 2-3 capilista. Ma poco cambia: il PD e il suo sciame in uscita sanno già che dovranno rincontrarsi e di buzzo buono parlarsi dopo il voto. Con gli “scappati” che saranno forse più decisivi dei rimasti. E nonostante gli appelli accorati dei vecchi capibastone quali Prodi, Fassino, Veltroni, Parisi e Letta, mandati sul pulpito come oracoli usa e getta per evitare il patatatrac (i primi a capire che alla fine, come ai tempi di DS e Margherita, si rimarrà tutti dirimpettai), il PD che ambisce a fare il “lupo mangiafrutta” del sistema politico è fuori stagione come e più di pareo e bikini in questo inverno. Forse tornerà o forse no: è il proporzionale, bellezza! E rispetto a prima, non sta scritto da nessuna parte che sarà così malaccio.
Valerio Mingarelli