CANTANTI, CATARSI E 50 (%) SFUMATURE DI AUDITEL: TUTTI GUARDANO SANREMO (PER PARLARNE MALE)
Tempi grami, questi. Lo spread, il noto morfema finanziario che rimanda a un pericoloso narcotico, si è spinto di nuovo sopra le colonne d’Ercole dei 200 punti e preoccupa (ma non troppo, come ai tempi di Monti). La Consulta, dopo aver demolito l’Italicum ma non troppo, ora si prepara a dirci che il nuovo “sudoku” proporzionalotto è sì utilizzabile subito, ma non troppo. Dall’altra parte dell’Atlantico, Trump un giorno delira e quello seguente dispensa carezze e miele (ma non troppo) e in Europa i lucidi (ma non troppo) Le Pen e Salvini lo imitano a pappagallo (ma non troppo). In Campidoglio si balla a tutto gas il successo anni ‘90 “Eins Swai Polizza(Ahi)”, con la Raggi sull’occhio del ciclone ma non troppo, la quale rischia di cadere ma non troppo, che per tutti è incapace ma non troppo. E nel PD non va tanto meglio: Renzi lascia trapelare ma non troppo, Emiliano vuole candidarsi alla segreteria ma non troppo, Franceschini va contro il segretario ma non troppo, D’Alema vuole fare armi e bagagli ma non troppo.
Di fronte a questa piena da “manontroppismo”, arriva (vivaddio) il Festival di Sanremo a fare da argine. La kermesse canora ligure (che è sempre tanta, troppa) è l’unico mastodonte mediatico che per cinque giorni riesce a mandare in stand-by il popolo italico e a deviare i suoi mal di pancia, ergendosi a pungiball di tutte le frustrazioni, le contumelie e le battutacce di cui siamo capaci. Un costosissimo e dorato novello San Sebastiano, il festivalone, sul quale scagliare dardi, sputi, dileggi e tweet al vetriolo senza paura di essere redarguiti. Tanto conta il “purché se ne parli”: se bene o male poco importa.
La prima serata dell’edizione 2017 griffata “Raiset” (per la cortese concessione della vestale dell’auditel del Biscione De Filippi al cucuzzaro di mamma Rai) mette insieme il 50,4% di share, sbandierando un bel “ciaione” alla corale del “non ci sono più le ugole di un tempo”, “il cachet del conduttore è un atto terroristico” (Cit.), “non c’è ritmo, che due palle”, “a morte i giovani dei talent” e strali verbali vari. Il Festival, ogni anno di più, sta diventando equipollente a ciò che ha rappresentato Silvio Berlusconi negli ultimi vent’anni: tutti hanno sempre dichiarato ai quattro venti di non votarlo, ma poi lui trionfava pacioso ad ogni elezione (pure quella per amministratore di condominio). Sanremo è l’Altare della Patria della tv italiana e col complesso romano di marmo Botticino condivide il sentore comune: tutti ne dicono peste e corna etichettandolo come sgorbio, poi però chiunque ci passa davanti si ferma lì a guardarlo. E lì si spiega quel roboante 50% e spiccioli.
Per carità, il lungo andirivieni sul palco dell’Ariston fa spesso di tutto per farsi maltrattare verbalmente. E la prima serata ne è stata l’ennesima conferma. La De Filippi che fa pentole e coperchi e mette in un cono d’ombra lo stavolta meno lampadato Conti (meno male che aveva la febbre, altrimenti l’avremmo vista prendere la bacchetta e dirigere pure fiati e ottoni dell’orchestra), la Ferreri che gorgheggia di adenoidi manco fosse un citofono, Al Bano che si presenta con un pezzo da Cantagiro del ’68 ed esterna acuti metallurgici (tranquilli, il codice per votarlo non è 118), Crozza che “baccaia” a distanza con Salvini, la rosicona Balivo che fustiga la sellerona Leotta, Raul Bova e la compagna che palesano un’empatia pari a quella che c’è tra me e un ferro da stiro, il rapper Clementino che conferma come il cedolino del canone in bolletta sia materiale cartaceo perfetto per farne stelle filanti in vista dell’imminente Carnevale, e chi più mazzate ha più ne dia.
Però poi c’è la Mannoia, che in gara con gli altri pare un Fausto Coppi messo a concorrere in mezzo a tanti cicloamatori, ci stanno Ferro e la Consoli che signoreggiano, Ricky Martin che tramuta l’Ariston in un villaggio vacanze, i giovani Elodie, Comello e Ermal Meta che fanno spellare la clap e Vigili del Fuoco e Protezione Civile che si prendono il meritato giubilo dopo le drammatiche vicende appenniniche di gennaio.
Il punto però non è tanto lo spettacolo in sé. Delle canzoni in fondo ci frega un “cavolo” grosso come una casa: nella carrellata iniziale ieri sfila un amarord ben mixato che dalla Pizzi a Tenco, da Battisti a Dalla, da Vasco Rossi a Zucchero, dai Ricchi&Poveri alla Pausini, rappresenta il medley di note musicali che ha segnato indelebilmente la storia del Bel Paese. Eppure nel sottopancia di molti di quei pezzi si è potuto leggere “eliminato alla prima serata” o “21° classificato” o ticker simili, a dimostrazione che tanti gloriosi motivi al momento della loro “prima” sul palco ligure furono letteralmente presi a pallate da pubblico e critica come continua ad accadere con puntualità svizzera pure oggi.
Sanremo è così: lo si guarda sempre con approccio catartico, con la speranza che qualcosa vada storto, che il conduttore si impappini iniziando a ruminare come un lama, che il vestito della valletta abbia tratti stilistici comici, che il cantante si rende protagonista di una stecca, che un super-ospite straniero snoccioli una polemica o addirittura che uno spettatore minacci di buttarsi da una balaustra. Il Festival ci dà insomma modo di sfogare tutto lo snobismo e il sadismo di cui siamo portatori più o meno sani. Ed è per questo che ci piace così tanto. Forse più della politica, che tanto ci fa battibeccare e “tifare”. Così rimarremo lì incollati alla tv fino al prossimo acuto “sbeccato” di Al Bano. Sempre che al teatro ligure non ritorni prima la Protezione Civile a prelevarlo.
Valerio Mingarelli