Per non dimenticare, la lezione degli studenti di Cerreto d’Esi
Cerreto d’Esi – Nei giorni scorsi, presso la Sala dello Stemma, in presenza del Sindaco David Grillini e l’Assessore alle politiche per l’istruzione Daniela Carnevali, si sono svolte le premiazioni del concorso proposto dall’amministrazione Comunale di Cerreto d’Esi alle terze classi della scuola secondaria dell’Istituto comprensivo “Italo Carloni”. Il tema dal titolo “ 27 gennaio Giornata della Memoria. Perché è importante ricordare?” ha visto quattro bravissimi finalisti che hanno svolto un notevole lavoro, rendendo davvero difficile la scelta di un vincitore. Tutti i componimenti rivelano grande preparazione, con riferimenti storici che attingono ad immagini, tramandate da toccanti testimonianze. Per questo motivo la commissione giudicante, formata dai consiglieri comunali, ha ritenuto di dover ampliare la platea, premiandoli tutti. Uno però, si è distinto per lo stile, per l’uso di un linguaggio diretto e naturale, a tratti anche poetico e commovente, ed è quello di Aurora Fianchini della classe 3 B (nella foto con il sindaco Grillini e l’assessore Carnevali). I quattro finalisti, AURORA FIANCHINI, MARTINA MEDURI, CRISTIANO FURBETTA, LORENZO GABRIELE, oltre all’attestato, hanno ricevuto il premio simbolico di libri dedicati al titolo del tema. “Come amministrazione – dice il sindaco, David Grillini – siamo fieri di avere giovani cittadini così preparati, orgoglio, risorsa e speranza per tutta la comunità. Ringraziamo ancora il Dirigente scolastico Emilio Procaccini e, soprattutto le insegnanti prof.sse Rita Latini e Graziella Vennarini, per la loro professionalità e gentile collaborazione”.
Il tema di Aurora Fianchini
27 GENNAIO: GIORNATA DELLA
MEMORIA.
Ricordare…
Quante volte abbiamo udito questo vocabolo in diversi ambiti?
C’è chi gli attribuisce la sola funzione di “verbo”, chi gli affida un significato più
profondo…
Tante cose possono essere rammentate: una partita a basket vinta con gli amici, una
risata con le persone che ci fanno stare bene, quei piccoli gesti che rendono speciale
un momento.
Come possiamo ricordare questi gioiosi avvenimenti, possiamo (e dobbiamo) ricordare
anche fatti tragici.
È proprio in questo giorno, il 27 gennaio, che siamo tenuti a trattare l’argomento
relativo alla Shoah. Tutti noi sappiamo a cosa mi sto riferendo, o forse mi sbaglio.
A questo punto mi chiedo: perché si chiama “Giornata della Memoria” se nessuno se la
ricorda?
77 anni fa sono morte milioni di persone, e questo ce lo ricordiamo bene. Ma l’intento di
questo Giorno, come del resto tutto quello che fa parte della Storia, è quello di
imparare, di apprendere, da ciò che è accaduto.
Non è sufficiente alzarsi la mattina e affermare di sfuggita: “ Ah giusto, oggi è il Giorno
della Memoria”. Questo come se fosse quasi una dimenticanza.
D’altronde, la gente muore tutti i giorni.
Ma oggi, dobbiamo ricordare il motivo per il quale queste persone sono decedute. In
questo caso la memoria viene meno.
Altrimenti perché, al giorno d’oggi, sui giornali e in TV leggiamo: “Bambino preso di
mira e aggredito in quanto ebreo?”.
Tante domande si pone la mia mente; domande alla disperata ricerca di una risposta.
Siamo noi in grado di ricordare?
Possiamo indubbiamente affidarci a testimonianze concrete, a persone che sono
sopravvissute all’odio e alla violenza di una delle più grandi offese alla dignità umana.
Esse ci riferiscono la loro esperienza, soffermandosi su punti differenti.
Ma le parole sono così potenti da trasmettere alla nostra anima il dolore, le atrocità,
che questa gente ha provato sulla loro pelle?
Secondo la mia opinione non possiamo neanche lontanamente immaginare quella
tipologia di sofferenza, se così vogliamo appellarla, poiché non esistono termini per
definire quegli orridi atti rivolti contro l’umanità.
Ma possiamo veramente definire quei prigionieri degli “umani”?
Uomini senza nome, identificati con dei numeri, ridotti allo stremo delle loro forze,
uomini che lottano per un pezzo di pane; uomini che fanno di tutto pur di rimanere
attaccati al filo della vita.
La vita era un filo, che poteva, da un momento all’altro, spezzarsi, rompersi per un
semplice “sì” o per un semplice “no”.
Per un insignificante errore, a questi individui veniva strappata via l’esistenza con
brutalità disumana.
Per quanto riguarda la dignità… Beh, quella l’avevano sottratta loro già da tempo: era il
primo piano che i carnefici portavano a termine. Toglievano la dignità, fino a farla
svanire.
Niente, era quello che i perseguitati tenevano ; la vita, era l’unica cosa da essi
posseduta. Ogni cosa si era disposti a compiere pur di non perderla, tutto, pur di
rimanere attaccati a quel filo.
Non si vive, si sopravvive. Questo, di certo, è impossibile comprenderlo se non lo si
sperimenta su se stessi.
Come diceva Primo Levi: “Anche se comprendere è impossibile, conoscere è
necessario, perché ciò che è accaduto potrebbe ripetersi”.
E si sta già ripetendo.
Una figura che mi ha colpito molto è proprio Liliana Segre, una superstite ai campi di
sterminio di Auschwitz, nominata senatrice a vita della Repubblica italiana.
Stimo e ammiro questa donna per il linguaggio che padroneggia: utilizza termini
contemporanei, affinché ciò
che è avvenuto in passato sia un ponte per discutere dell’oggi. Perciò, Liliana si reca
nelle scuole per trasmettere la sua testimonianza, dando la parola a coloro che anni or
sono non la ebbero.
Apprezzo la Segre poiché è una delle poche figure che ripone piena fiducia nei giovani,
nei ragazzi come noi. Oggigiorno è complicato riscontrare qualcuno fiducioso nei
confronti dei ragazzi.
All’interno del nostro mondo contemporaneo si tende a mettere in risalto
esclusivamente gli aspetti negativi della gioventù.
La senatrice, al contrario, crede fermamente che i giovani debbano immaginare un
pianeta senza violenza, senza persecuzioni , un pianeta senza dolore. Immaginarlo per
poterlo costruire.
Il futuro è nelle nostre mani.
Liliana ci insegna che di ogni azione che compiamo all’interno del mondo dobbiamo
assumerci la responsabilità. Se così non fosse, si vivrebbe nella vigliaccheria. Un suo
racconto che mi ha affascinato è quello riguardante la “Marcia della Morte”.
Un avvenimento di cui si parla molto poco.
Dobbiamo infatti ricordarci che non tutti gli ebrei sopravvissuti furono liberati il 27
gennaio, quando le truppe russe varcarono i cancelli di Auschwitz.
Cominciò questa marcia, nella quale i superstiti, un piede davanti all’altro, con il corpo
e le ossa stremate per la spossatezza, marciavano verso la “libertà”.
Queste poche persone erano follemente attaccate alla vita, non volevano abbandonarla
proprio in quel momento, quando un barlume di speranza si era acceso nei loro cuori.
La Segre ci comunica che la forza della vita è talmente straordinaria, che ci prepara a
questa marcia, che nel nostro cammino non dobbiamo appoggiarci mai a nessuno.
Perché nella “Marcia della Morte” non ci si poteva appoggiare al compagno davanti,
anche lui in costante lotta per non mollare. Eppure, quel briciolo di forza interiore
ripeteva a tutti loro: “avanti, avanti, avanti!”.
È proprio questa incredibile energia che bisogna trasmettere ai giovani, i quali si
abbattono al primo ostacolo del percorso.
Quella che una volta è stata la “Marcia della Morte” deve divenire la “Marcia della Vita”.
Primo Levi, anche lui superstite delle atrocità del nazismo e del fascismo, compone
un’opera: “Se questo è un uomo”. Sopravvissuto ad Auschwitz grazie alla sua laurea in
chimica che gli aveva concesso lavoro in una fabbrica di gomma, Levi fa ritorno al
paese natale.
Qui, avverte la necessità di far conoscere ciò che aveva passato e ciò che aveva visto,
fattori che lo sconvolsero per tutta la sua vita.
Lo scrittore ci spiega la differenza tra “odiare” e “perdonare.
Egli reputa l’odio un sentimento rozzo, animalesco.
Per fermare questo potente impulso proveniente dall’anima, Primo fa uso della
giustizia.
Ma il perdono… Impossibile perdonare gli atti dei nazisti: tutto ciò che hanno compiuto
è impresso nella memoria del chimico.
“I tedeschi, sapevano che cosa stava accadendo?” gli è stato chiesto.
“Chi sapeva non parlava, chi non sapeva non poneva domande. A chi faceva domande
non veniva data una risposta.” risponde lui.
È stato anche chiesto a Primo Levi il motivo per cui non avvenivano ribellioni di massa.
Mi colpì molto la sua risposta.
“Per attuare una ribellione è necessario possedere ancora una determinata forza fisica,
ma soprattutto forza umana”.
Ma, come ho precedentemente spiegato, quelli nei campi di concentramento non erano
più uomini: di umano non avevano più nulla.
Anche se non possiamo comprendere a pieno quello che il Nazismo ha comportato,
cerchiamo di apprendere cosa significhi togliere l’umanità ad una persona, quali
strazianti processi hanno condotto a questo atto.
Conosciamo, per far sì che quello che è avvenuto (e sta in parte avvenendo dinanzi ai
nostri occhi) non si ripeta in futuro.