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FABRIANO FILM FEST, PARLA IL TRE VOLTE PREMIO OSCAR VITTORIO STORARO

Vincitore di tre premi Oscar per la migliore Cinematografia per “Apocalipse Now” di Francis Ford Coppola, “Reds” di Warren Beatty e “L’ultimo imperatore “di Bernardo Bertolucci, Vittorio Storaro sarà presente il 2 giugno a Fabriano nell’ambito della sesta edizione del “Fabriano Film Fest”. Abbiamo raggiunto Vittorio Storaro per scoprire come, anche attraverso la luce, sia possibile “raccontare” storie meravigliose, in tutte le arti che la luce stessa attraversa.

Vittorio Storaro, una carriera strepitosa che ha nella luce un filo conduttore fondamentale. Se le dicessi: “In principio fu la Lux”, a chi è rivolto il suo primo pensiero?

E’ una domanda talmente fondamentale. La luce in realtà che cos’è? Non è altro che energia, è un’energia elettromagnetica che si rende visibile, tramite le sue onde, non soltanto ai nostri occhi, che sono i sensi della vista mediata, ma a tutto il corpo. Essendo onde elettromagnetiche noi le riceviamo su tutto il corpo per cui un certo tipo di luce, di intensità luministica, di colore, quindi parte della luce dello spettro cromatico, ci modifica il metabolismo, la pressione sanguigna e anche il battito del cuore. In realtà la luce, essendo energia, è tutto. Ci da tutte quelle sensazioni che possono essere come le emozioni. Credo che il linguaggio della luce sia talmente importante tanto quanto il linguaggio della musica con le sue note, quanto il linguaggio della letteratura con le sue parole. Riesce a trasmettere emozioni.

Ha sempre amato definirsi un “cinefotografo” piuttosto che un “direttore della fotografia”. Una differenza sostanziale, perché?

Bisogna tornare alle origini del significato della parola ”fotografia”, dal greco foto-grafia, luce-scrittura. Chi esercita questo tipo di esperienza si chiama quindi foto-grafo, cioè uno scrittore di luce. Al cinema, in televisione o anche nel teatro abbiamo un susseguirsi di immagini che hanno bisogno di movimento, pertanto diventa cinematografia, che ha bisogno di un tempo, di un ritmo e di un certo tipo di composizione delle immagini. Il cinema è chiamato la “Decima Musa, perché in realtà si nutre delle alte nove Muse. Ecco perché io non amo la parola “direttore” della fotografia, inventata dagli americani negli anni ’60 perché si volevano in competizione con i “directors” americani che sono i “registi”. Lo trovo un errore. La nostra struttura è come un’orchestra, ci sono vari solisti, ma c’è un solo direttore d’orchestra. Quindi, in campo cinematografico, c’è solo un “director”, un “regista”. E’assurdo mettere due “directors”, due “registi” nello stesso gruppo di lavoro.

Con quali virtuosismi tecnici e con quanto lavoro riesce a trascrivere un film in immagini? Per citare il titolo della sua trilogia, è possibile “scrivere” con la luce?

Un conto è esprimersi in una singola immagine come fa un pittore o un fotografo. Nel cinema c’è una “susseguenza” di immagini, quindi richiede un racconto. Ecco perché mi piace la parola “scrivere” e non “dipingere, perché c’è un ragionamento da fare. Nel tempo del racconto c’è bisogno di ritmo, pertanto anche la musica diventa importante per sottolineare questo ritmo. Fondamentalmente all’interno dell’immagine c’è la composizione, noi “raccontiamo” con la luce la storia che è stata scritta. Questo “racconto” lo facciamo attraverso tutte le arti. Ho lavorato ad esempio con mia figlia, architetto della luce, unendo la luce con l’architettura. Abbiamo realizzato i tre Fori imperiali a Roma con la luce permanente, usando proprio il “linguaggio della luce”, raccontando la storia attraverso particolari posizioni luministiche. Attualmente ci stiamo occupando dell’interno del Battistero di Firenze, un vero capolavoro architettonico, un progetto approvato dal Presidente dell’Opera del Duomo e dalla Sovrintendenza della Città di Firenze. Abbiamo compiuto delle ricerche ed uno studio per individuare come, attraverso la luce, potessimo simboleggiare il rito del Battesimo. Abbiamo pertanto ideato un vero e proprio Battesimo di Luce, utilizzando la luce come simbolo, partendo dall’ottagono del fonte battesimale come sorgente di luce fino a culminare nel cerchio del Cristo e facendo ritornare di nuovo a terra la luce, un vero e proprio movimento dell’infinito. Ogni progetto cinematografico, architettonico o teatrale pertanto richiede un suo studio particolare, una sua ricerca, una sua applicazione.

E’ stato l’”occhio” di registi di fama internazionale quali Bernardo Bertolucci, Francis Ford Coppola, Warren Beatty. Che ricordi conserva di queste esperienze professionali?

Credo di essere stato molto fortunato ad incontrare queste “guide spirituali” sul piano creativo. Con Bertolucci ci siamo incontrati da giovanissimi, io ero solo un assistente. Abbiamo poi collaborato per 25 anni. Bernardo si esprime in parte in modo cosciente, in parte “suggerisce”, ha bisogno di trovare una simbologia, non è tutto in un unico lato. In questo aspetto abbiamo trovato un’affinità, così utilizzavo la luce per mettere in scena la parte “cosciente” di Bertolucci e per la sua parte “inconscia” usavo l’ombra. Con Coppola in “Apocalipse Now” ho ideato delle luci e colori artificiali che si sovrapponevano ai colori ed alle luci naturali, creando visivamente un conflitto luministico, che era esattamente il concetto che Coppola cercava. Warren Beatty, vedendo i lavori che facevo con Coppola e Bertolucci, ha avuto il sogno di fare “Reds”. Il sogno è diventato contagioso, mi identifico molto con lui nel mio campo. Beatty mi ha insegnato a “leggere” la scena dal di dentro, dalla parte dell’attore o del caratterista, completando così la mia conoscenza.  L’ultimo mio incontro con un grande artista è stato con Woody Allen, un grande scrittore. Allen ha un modo di scrivere “musicale” e ciò mi piace molto. Il ritmo, per noi che facciamo cinematografia, è essenziale, permette di usare una certa luce o un movimento della macchina da presa che va in sintonia con quel contenuto e nel modo in cui è stato scritto. Con Woody Allen abbiamo fatto ben tre film consecutivi.

La sua presenza a Fabriano impreziosisce la sesta edizione del Fabriano Film Fest. Nella sua carriera ha lavorato a moltissimi cortometraggi. Che differenza tecnica si riscontra tra un corto ed un lungometraggio?

Ho avuto anche qui una grande fortuna. Negli anni ’60 ho realizzato molti cortometraggi. Trovo straordinaria la preparazione e la sperimentazione che attraverso i corti si riesce ad attuare. Ho partecipato a molti festival, materializzando così le mie esperienze teoriche, ho potuto formarmi e continuare a prepararmi, senza fretta, cosa diversa per i giovani di oggi che vogliono approdare troppo presto al lungometraggio. L’occasione per me si presentò nel ’68, avevo 28 anni, quando Franco Rossi mi contattò per realizzare il film “Giovinezza, giovinezza”, tratto dal libro di Petri. Ecco, film tratti da libri, da storie scritte da chi sa costruire i personaggi ed i caratteri. Non sempre i giovani devono per forza realizzare film con copioni scritti da sé. Fa molto bene anche basarsi su opere scritte da altri.

Un consiglio ed un suo personale augurio per i giovani che si avvicinano al mondo del cortometraggio e del cinema in genere?

I giovani devono capire che hanno una gran fortuna nell’avere la possibilità di poter esprimere se stessi. Devono imparare la sintesi, che è fondamentale nel cinema. Oggi si è creato un grande spazio nella distribuzione anche dei cortometraggi, i giovani hanno la possibilità di formarsi nel corto, senza la responsabilità che si richiede altrimenti in un grande progetto. Con il cortometraggio si impara in modo straordinario. Per chiudere vi racconto un episodio. Ho ricevuto il terzo Academy Award nel 1988, era il momento più alto della mia carriera. Mi hanno offerto in quel momento di girare dei cortometraggi sulla storia della civiltà romana. Dopo ogni grande progetto mi piace fermarmi, amo scavare nelle mie origini. Quindi mi fermai e realizzai per cinque anni cortometraggi. Credo che sia un bel messaggio per i giovani che partecipano al Fabriano Film Fest.

Gigliola Marinelli