‘TRUMPONAMENTI’ A CATENA E ORCHITI REFERENDARIE: 4 LEZIONCINE DAL FINTO GOLPE D’OLTREOCEANO
Da “avanti popolo! ad avanti populista!”. E’ stato questo il calembour diversamente divertente di un noto esponente del centrosinistra nostrano col quale, mercoledì mattina, la tv appena accesa mi ha dato l’ulceroso buongiorno. E con esso, la notizia (assai meno impattante a livello gastrointestinale) del tripudio di Donald Trump al di là dell’Atlantico. E siccome le disgrazie non vengono mai da sole, il matineé mi ha offerto anche lo show donchisciottesco del centrodestra italico in blocco sul carro del vincitore newyorchese con tanto di ghirlande e dentiere smaltate per l’occasione (non è che si rida molto, ultimamente, da quelle parti). Un carro del vincitore largo più o meno 3-4 ettari, quello del tycoon dal pennacchio biondo, con su issati lepenisti, orbaniani, Farage-brexittiani e altre ciurme festanti di mezza Europa. Più che un carro un chilometrico autosnodato, con sopra qualche scarpa grillina e, ai lati, pure qualche avambraccio di alfieri della sinistra massimalista post-Bottegone, tentati da un salto in extremis sul grande tir allegorico. Tutti con un solo grido: il vento è cambiato!
Premesso che, sia nell’iper-democratico Connecticut sia nel Missouri a trazione repubblicana, se fossi stato un cittadino americano non avrei votato né per la Clinton né per Trump (e visto il mix di cabaret, calci nelle parti basse e dispettucci della campagna elettorale Usa, forse non avrei votato per niente) ora che Trump si appresta a liquidare con 50 dollari di mancia il “coloured” che gli lascerà chiavi, sofà e comò della Casa Bianca, fanno sbellicare dalle risate le grida apocalittiche di chi riteneva la moglie del “Casanova” Bill il minore dei mali. Con Trump nello studio ovale non arriveranno né meteoriti né carestie, né cavallette né pesti antonine. E questo per un equivoco molte semplice, che rende altrettanto farseschi coloro che ora strepitano con gioia stile Tardelli al Bernabeu nell’82 per il successo di Trump: se quest’ultimo è il portacolori dell’anti-establishment, io sono Lady Gaga. Mister “riporto”, da showman birichino di razza, è stato formidabile nel gabbare mezza America con la supercazzola assordante della destabilizzazione, del fanculo Wall Street, dello sticavoli degli altri paesi, della caccia all’immigrato e del falò ai trattati sul libero commercio. Ha toccato corde giuste qua e là (e non solo nell’America bianca o tra gli allevatori di maiali del Kansas e dell’Iowa, come gli analisti sapientoni ripetono in loop) ed è stato uno e trino, mezzo capopopolo e mezzo personaggio d’avanspettacolo, sbaragliando la concorrenza prima nell’imbolsito partito Repubblicano e poi piegando la spocchia da prima della classe dell’odiata (e odiosa) Hilary. Ora che ha vinto, però, parafrasando Quasimodo “è subito establishment”: lo sguaiato dalla chioma ocra è già uscito dal ring del politicamente scorretto per rientrare nei ranghi del bon ton mediatico-istituzionale e del serioso aplomb governativo. “I muri al confine col Messico? Bah, giusto qualche recinto (e senza fili spinati). L’addio all’Obamacare nella sanità? Ma dai, vediamo. I dazi doganali? Scherzavo. Niente rapporti con gli altri capi di governo? Son cose che si dicono, suvvia: intercalari. Ho già uno scopone scientifico fissato con Netanyhau, un thé pre-natalizio con Teresa May, e con Putin presto faremo una serata a base di vodka e squillo. E l’astio verso Wall Street, lobbisti e affaristi? Eddai, in campagna elettorale quel giorno non c’ero, e se c’ero dormivo. Son brava gente”. Il tenore è più o meno questo, e ne avremo lampante conferma a gennaio quando conosceremo la sua squadra. Nella quale il suo capo-staff sarà Rience Priebus, presidente del Republican Committee (più establishment di così si muore). E il candidato numero uno per il Tesoro è un ex executive di Goldman Sachs.
Ventata d’aria fresca un corno, viene da dire. Però il trionfo del pennacchiuto miliardario, che comunque non lesinerà stravaganze e colpi di mano, ci insegna diverse cosucce (oddio, stando a come le elezioni Usa vengono utilizzate dalla politica italiana nella avvilente campagna referendaria, pare più vero il contrario).
1-Che la parola “populismo” non significa una beata mazza e sta assumendo tratti fantozziani, nonostante compaia in ogni dibattito politico come la mozzarella sulla pizza: chi la agita contro altre forze politiche si dà (quasi sempre) la zappa sui piedi. Perché per vincere bisogna sì scaldare i cuori e stimolare le menti, ma agli elettori va accarezzato anche l’addome. Per informazioni chiedere a Mario Monti, che nel 2013 (da premier uscente) alle politiche non aizzò neppure un battito di ciglia, tanto che gli elettori non lo videro nemmeno. Oppure a Stefano Parisi, che per emergere nell’ormai incrinata foto di gruppo del centrodestra italiano si è messo a battibeccare con Salvini e ad abbaiare il “No” al referendum contro Renzi. Un ruolo che nella grande recita che è oggi la politica non gli appartiene, infatti nel casting berlusconiano per trovare il nuovo messia dei moderati è già praticamente fuori. A loro modo tutti sono populisti, se esserlo vuol dire agitare qualcosa nell’elettorato solo per accaparrarsi qualche voto. Lo sono i Grillo e i Salvini, certo. Però lo è anche Renzi, come negli ultimi 20 anni lo è stato Berlusconi.
2-Chi governa diventa per forza establishment. Altro che il “fanculo Wall Street” di trumpiano ardore. Il caso emblematico è la giunta Raggi a Roma: a parte sindaco e vice, tutta la giunta è stata formata con professionisti dei rispettivi ambiti, alla faccia dell’uno vale uno. Trump non metterà un pollivendolo del Kentucky a capo del Congresso né un manovale texano alle Infrastrutture: andrebbe dato un taglio a sta pippa dell’anti-casta o del rivoluzionario “alla Trotsky” calato dalla Luna.
3-Le due invettive “i sondaggisti non ne acchiappano mezza” e “con i giornali incartateci lattuga e ruchetta” sono vecchie e stra-abusate: le sentiamo dal ’94, nenie ridotte a mesti canti gregoriani. E’ vero: gli eredi di Mannheimer e di Scalfari ormai sarebbero in grado di andare al mare e di non trovare l’acqua. Però il motivo anche qui è abbastanza semplice: sono anch’essi ultras nel Colosseo della politica. Il giornalismo italiano sta toccando vette di tifo (e di squallore) mai viste nella marcia di avvicinamento trivella-gonadi al referendum. E gli esperti di sondaggi hanno ormai metodologie obsolete e non immuni al fatto che gli interpellati due volte su tre mentono o sparano cazzate sulle loro intenzioni di voto. Però bearsi in sede di analisi del voto facendo il tiro al piccione sul giornalista X o sul sondaggista Y sa di smargiassata lagnosa: è come fare tredici al totocalcio il lunedì. Siamo tutti capaci, ferma restando la insulsa faziosità di tante boriose “penne”.
4-Quarta e più importante lezioncina: il non voto conta eccome, e conterà sempre di più. Non è solo un “polo” politico, ma ormai il vero ago della bilancia. Ad ogni tornata elettorale. A giugno gli under 30 britannici, tenendosi a diverse miglia di distanza dai seggi, hanno decretato l’urrà del “Leave”, quindi della Brexit. La scorsa settimana alla Clinton (che pure nei voti popolari ha prevalso) sono mancati centinaia di migliaia di voti di under 40. E attenzione: il disinteresse non c’entra un tubo, come invece blaterano i polli da combattimento nei talk show politici. Il non voto è un’arma utilizzata in maniera sempre più consapevole. Nel vedere Clinton Vs Trump, molti miei coetanei con passaporto a stelle e strisce hanno fatto il mio stesso ragionamento e la barzelletta del “turarsi il naso” è sempre più una leggenda metropolitana per riempire i catenacci dei giornali: oggi non votare è, a tutti gli effetti, un voto. Da interpretare. E utilizzabile: anche il 4 dicembre sarà così. Gli strilloni di #BastaUnSì e #IoVotoNo sono avvisati e (speriamo) mezzi salvati.
Valerio Mingarelli