PALLE SGONFIE, PANCHINE SEGATE E POLTRONE BLINDATE: L’ITALIA S’E’ MESTA. CHI HA FATTO PALO?

“Parce sepulto” (“Risparmia chi è sepolto”), diceva Virgilio. In poche decine di ore sulla disfatta a tinte azzurre che ha fatto suonare a morto trombette e vuvuzele dello sgonfissimo pallone italico è stato detto di tutto e di più. L’artiglieria dei calciofili spara imperterrita sull’ambulanza in avaria da giorni: dal solenne epitaffio in nero funereo della Gazza (“fine”) passando per “catastrofe”, “Caporetto”, “il calcio è morto”, “Ground Zero”, “apocalisse”, “tutti a casa” fino a quell’ulceroso “andate a lavorare” da bar sport de “Il Tempo”, c’è ormai poco da attingere sfogliando il frasario demolitorio.

Dunque, proviamo ad andare oltre. Innanzitutto ai mantra un tanto al chilo tipo “la Nazionale è lo specchio del paese” (vi prego, basta). O alla cantilena protezionistico-salviniana secondo la quale “in serie A ci sono troppi stranieri”: c’erano anche nel 2006, quando ci ritrovammo in terra crucca a storpiare il “po-popopopo-po” degli White Stripes con la coppa in mano a Fabio Cannavaro. Il calcio è globale, bellezze: la Germania, da quando il cancelliere Schroeder approvò il (da noi) tanto temuto Ius Soli, è diventata una stufa sforna-campioni. Basta perciò una fiducia in Senato per rivedere la cicogna sganciare talentini sui campetti d’oratorio dello Stivale? Chiaro che no. Il regnante pre-Merkel innervò lo sport nei licei, ben spalleggiato dalle istituzioni sportive. Nel Belpaese, ad oggi, una scuola calcio “migon” dell’Oltrepò Pavese necessita di una task force di commercialisti solo per smaltire le scartoffie per tesserare un’ottantina di fanciulli: provare a copiare i teutonici sarebbe come pensare di portare a letto Charlize Theron consci di avere il sex appeal di Danny De Vito (con rispetto parlando). E ancora: al bando anche gli snob che, con leziosa sicumera e afrori sotto al naso da damerini dediti al bridge, gioiscono per il tracollo azzurro. Lo dico da persona che ha altri sport in punta di ventricolo e una malattia vera solo per uno (indizio: un parquet, due cesti e una palla a spicchi): voi gaudenti della disfatta siete fastidiosi come orchiti parotitiche. Certo, le disgrazie della vita sono altre, ma l’Italia fuori dal mondiale è una mezza sciagura: emotiva, sociale, culturale e soprattutto economica. Altresì, visto che ci siamo, stoppiamo pure la retorica frignante dei “bambini che non vivranno il sogno mondiale”: ai nostri sveglissimi infanti interessa di CR7, Dybala e Mertens, non di Gabbiadini, Astori e Bernardeschi. Il torneo russo se lo papperanno lo stesso. E di gusto.

Ora: lasciamo le copiose e estenuanti analisi da sofà televisivo. E limitiamoci alla mera cronaca. Non sono certo gli esecrabili e malevoli 180 minuti contro i conterranei della cassapanca “Stuva” Ikea la cartina di tornasole dello sfacelo “pelotaro” italiano: il bello è che, con una botta di lato B, potevamo strappare lo stesso il tagliando per la campagna di Russia. Il peggio doveva ancora arrivare: il docu-film perfetto sul coma vigile in cui versa il sistema calcio è andato in onda 48 ore dopo in via Po a Roma (sede-fortino della Figc). Al termine del quale è sembrato di assistere a una surreale sfilata di personaggi da sceneggiato pedagogizzante anni ’50, infilati per caso in una trama a metà tra il noir e la tragedia sofoclea.

Carrellata federale: riviviamola. Senatore Sibilia, timoniere Lega Dilettanti: “Tavecchio? Bah. Dai, vedremo”. Non sapeva/non rispondeva: doroteo fino al midollo. Gravina, gran capo Lega Pro: “Tavecchio? Se molla sono dolori”. Wow: che altro deve fare, stringere un patto con Al Baghdadi per la gestione dei vivai per riuscire a farsi cacciare? Ma proseguiamo. Nicchi, numero uno degli arbitri nostrani. “Tavecchio? Noi siamo qui per il calcio. Che poi i fischietti nostri al mondiale ci andranno”. Come a dire: sticazzi, per noi l’iride c’è. Per tutto il resto, sapete com’è: Ponzio Pilato… is nothing. Passiamo alla variante pasoliniana dello sceneggiato: Ulivieri, portacolori degli allenatori italici. Volto color cremisi, come se fosse strafatto di grappa barrique di Amarone della Valpolicella. “Non capirei dimissioni di Tavecchio, e comunque dico a Malagò (che poche ore prima aveva calato la mannaia sul plenipotenziario Figc, ndr) che chi si fa i cazzi suoi campa 100 anni. Forse pure 120”. Lupus in fabula: ecco l’ex sindaco Dc di Ponte Lambro. Colui che è stato definito dal suo principale sponsor Claudio Lotito “una pandemia di colera” (e questi sono gli amici, figuriamoci cosa dicano in cuor loro i nemici): il ragionier Carlo Tavecchio. Tutti, non solo il leone bianco e “glamourissimo” Malagò, si aspettavano che il vegliardo comandante in capo del pallone riconsegnasse all’istante la poltrona con tanto di cellophane e coccarda. Ma nada. Anzi, si è sfiorata l’epica omerica: con la solita faccia luciferina da “mo’ ce penso io”, non solo Tavecchio si è spaparanzato di nuovo sul trono che ogni essere con un minimo di attività cerebrale vorrebbe sfilargli, ma ha comunicato di aver fatto come Al Pacino in Scarface. E di aver azionato la Black&Decker potatrice GKC per segare la panchina a quel musone sfigato di Ventura. Il quale però, mollato negli ultimi tre mesi a portare la croce sul Golgota da solo (non ne ha azzeccata mezza, ok, ma era come una trota sull’asfalto: avrebbe avuto più chance da Ct del Badminton), ha legittimamente atteso la motosega altrui senza azionare la propria: persa per persa, 130 mila euro netti al mese da qui a luglio prossimo proprio schifissimo non fanno. E renderanno un tantino più soft l’attuale pubblico ludibrio.

Torniamo però al nostro eroe. Ripreso il piglio da condottiero e alzando il mento con fare totalitario, Tavecchio ha rilanciato: “Lunedì vi presenterò il nuovo programma. Un nuovo corso. E un nuovo Ct. Si riparte”. Manca solo uno “spezzeremo le reni alla perfida Albione”, e il cabaret è tratto. Fortunatamente in quel momento c’era chi, preso da diverticolosi fulminante, si è alzato ed è corso via con sforzi gastrici evidenti: Damiano Tommasi, portabandiera dell’associazione giocatori. I quali, in una corale coordinata che non si sentiva dai tempi di “Usa for Africa” con Jackson, Dylan, Springsteen e Wonder, hanno mandato 720 milioni di emoticon Whatsapp con la cacchina a fianco alla parola “Tavecchio”.

L’interrogativo, a questo punto, non è rinviabile: ma davvero si poteva (anzi, si può) pensare di tenere in salute lo sport nazionale e terzo-quarto segmento industriale del paese con un capo mastro del genere? Tra le uscite da sommo cattedratico (il famigerato mangia banane Opti Pobà diventato titolare della Lazio senza avere un Cv), le sparate sessiste (quel manipolo di “lesbiche” delle calciatrici della nazionale in gonnella), l’omofobia spensierata (“nulla contro i gay eh”, ma se si dessero al nuoto sincronizzato forse è meglio), possibile che a nessuno è venuto da chiedersi, anche tra i proprietari di squadre di club, che sto signore in Figc c’entra come la peperonata a merenda? Suvvia. Tre anni di chiacchiere sulla riforma dei campionati, salvo poi concludere che “E‘ pura utopia pensare di dire a quelli del lato destro della classifica di serie A di ridurre il campionato da 20 a 18 team” (poveri soldi nostri). Ciarle a iosa sul protezionismo “passaportaro”: “Presto l’obbligo di almeno quattro italiani per squadra sempre in campo!”. Filastrocca sentita dieci volte, per poi ammettere con mestizia che “rischiamo di falsare il mercato”. E che un terzinaccio pippone abruzzese arrivi a costare otto volte un suo omologo cileno.

Siccome pure l’orologio più scassato due volte al giorno azzecca l’ora, anche lui una ne ha indovinata: la Var, unico marchingegno per cui il nostro calcio è un’avanguardia a livello globale. Per il resto solo tenebre cupe. E fosco antracite: parliamo di un signore che, con fierezza da capo-legione, ha presentato il nuovo stemma della federazione in pompa magna… uguale identico a quello precedente. Istantanea perfetta dell’immobilismo federale e di quanto sia democristiana e arretrata la gestione (con grana pubblica eh, of course) del nostro pallone. Ora, con questa fiction dadaista in corso nella stanza dei bottoni, è ancora il caso di continuare a fare carpiati dal pero per l’harakiri contro la Svezia? Amici pallonari, prepariamo cappello e borracce: la traversata nel deserto sarà lunga. E per niente appassionante.

Valerio Mingarelli