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Anna Rita Riccioni, Diario di una luttuante: Le mie parole dal Vuoto

Come possiamo descrivere il dolore? Come è giusto rapportarsi con chi lo vive sulla propria pelle? Siamo degni di raccontare giornalisticamente il dramma di chi perde il compagno, il migliore amico, “la persona che dava vita alla vita stessa”? Anna Rita Riccioni ha perso tutto questo e ci ha donato oggi una narrazione intensa, senza filtri e profondamente vera del suo amore per il compagno. “Diario di una luttuante: Parole dal vuoto”, edito da Albatros, è il libro scritto da Anna. Un flusso cosciente di pensieri, ricordi, emozioni, episodi di vita quotidiana in cui il dolore della perdita diventa fisico, si riesce a toccare, toglie il respiro, catalizza in una dimensione che immedesima e lacera l’anima. Anna e Gioacchino, Gioacchino e Anna entrano nelle nostre viscere con la loro amorevole quotidianità, li osserviamo e ci inteneriamo dei loro gesti rituali, delle reciproche e desiderate carezze leggere. Due nomi di religiosa memoria che narrano un amore sacro, sospeso su di noi come una nuvola bianca, passando da una dimensione onirica alla cruda e straziante realtà della solitudine e del vuoto di quel baratro senza fine. Ho conosciuto Anna Rita negli anni della bella gioventù, nella sua armoniosa leggerezza e straordinaria bellezza di danzatrice e artista che conserva tuttora. Sono qui oggi a porgerle la mano, con la delicatezza ed il rispetto dovuti per questo suo strazio, come lei spesso lo definisce nel suo libro. In punta di piedi, stando al mio posto, come è giusto che sia di fronte alla potenza di un amore così grande che solo poche persone nella vita hanno avuto il privilegio di vivere e che molti cercano invano per tutta la loro esistenza.

Anna Rita, prima di tutto grazie per avermi permesso di avvicinarmi a te ed al tuo dolore. Una prima riflessione con te sul senso di questo strazio che stai sopportando come un macigno allo stomaco e su quanto il mondo intorno a te sia impreparato ad essere di supporto a tutto il dolore che stai provando.

Grazie a voi per concedere spazio alla mia pubblicazione, al mio sentire e ai miei pensieri. L’argomento è delicatissimo, bisogna muoversi come tra i cristalli. Il mondo intorno a me è impreparato come lo ero io fino a un anno e mezzo fa. Presa coscienza di questo che chiamo analfabetismo rispetto al dolore, l’istinto mi ha spinto verso la parola urlata e scritta. Un urlo straziante fa tacere chi è intorno. Chi osserva il dolore deve rimanere in silenzio. Non si è mai sufficientemente preparati a dire la frase giusta. Non dico “è preferibile”, ma “deve”.

Il tuo percorso di psicoterapia ha mosso in te la necessità di scrivere per dare voce ai tuoi pensieri, per urlare la tua rabbia più che legittima. Che viaggio è stato raccontare nel libro l’amore per il tuo compagno e per la vostra vita insieme?

Il viaggio non si è mai interrotto. Non ho più smesso di scrivere. Le pagine pubblicate in “Diario di una Luttuante: Parole dal Vuoto” partono da quattro giorni dalla fine e arrivano a febbraio 2024. Mese in cui la mia Psicoterapeuta Dott.ssa Monia Duca ha interrotto con voce piena la lettura dei miei appunti: “Queste pagine devono essere pubblicate”. La mia risposta “ci penserò” si è prolungata per cinque mesi. Non posso dire di aver preso una decisione affrettata.  Unico monito della dottoressa “purchè non sia cambiata neanche una virgola”. Prima di inviare alle case editrici in realtà di virgole ne ho cambiate. Più che altro ne ho eliminate. Rileggendo ne ho trovate a secchi. Decine e decine di virgole. Forse erano il mio modo di respirare. Visto che stavo soffocando. Ho tenuto le brutte parole come anche le ripetizioni. Ho conservato fedelmente la me di quei mesi. Mentre scrivo l’intento non è quello di raccontare il mio amore per Gio. Ho iniziato a scrivere perchè voglio fermare il mio sentire. E per sopravvivere. Sono sempre stata molto riservata riguardo alla nostra vita privata, quindi il proposito non poteva essere quello. Forse proprio per questa mancata ostentazione alla fine l’amore si legge tanto quanto il dolore. Ogni volta che scrivo i moti del mio animo, vedo cose. Reali, tangibili. E questa auto-analisi così profonda mi porta alle divagazioni che il lettore percepisce come racconto d’amore. In realtà è la quotidianità del nostro vissuto. I momenti che tutti dovremmo imparare a fermare. Non scattando foto, ma facendo scattare qualcosa dentro di noi. L’Arte è un veicolo potente. In tutte le sue forme. All’Arte si può avvicinare chiunque. Purchè lo faccia con educazione.

In un passaggio del libro scrivi “dovrebbero istituire una materia scolastica in quinta superiore: come essere di conforto a chi subisce un lutto importante e perché”, ma anche un decalogo da imparare a memoria sulle “frasi da non dire a chi ha subito un lutto importante e perché”. Cosa ti indigna del comportamento degli altri nei confronti del tuo dolore? Quante banalità hai ascoltato?

Le frasi preconfezionate come un kit di assistenza alle situazioni difficili da gestire mortificano, lacerano. Non sono solo inutili, sono offensive.  Offendono chi vive lo strazio sessanta volte al minuto. Gestire l’assenza vuol dire ricevere un colpo di spada ogni volta che si apre una finestra, si beve un bicchiere d’acqua, si guarda il pavimento di casa o si carica la lavastoviglie. Chi immagina un luttuante lo pensa sofferente ad intermittenza. Non è così. Frasi come “ora è troppo presto”, “vedrai, tu sei forte”, “immagino il tuo dolore”, “lo sentirai vicino”, “il dolore va attraversato”, “non ti conviene cambiare casa?” o “il lavoro ti aiuterà” sono tutte appese in aria. Lontane da chi soffre migliaia di chilometri. Chi vive un lutto lacerante ha i piedi cementati, tanto è il peso.  Rimanere in silenzio non vuol dire lasciar solo chi soffre. La sola vicinanza, qualcosa di pratico o un abbraccio, sono il vero aiuto. Noi sappiamo distinguere. Siamo molto più lucidi di quando eravamo felici. Inoltre ho la piena convinzione che noi adulti stiamo diventando pessimi educatori al dolore. Abbiamo costruito un mondo in cui i nostri figli non devono soffrire. Vietato soffrire. Vietato essere da meno. Vietato perdere. No ai rimproveri, no alle correzioni, vietato sbagliare. Soprattutto vietato cavarsela da soli purchè si eviti l’errore. L’inciampo e quindi il disagio per aver sbagliato, non sono contemplati. Eppure le voci che ho appena elencato hanno permesso di rimboccarmi le maniche, apprezzare la mia compagnia in solitudine e vivere il dolore con la lentezza di cui ha bisogno.  Un mondo di anestetizzati. Fra cento anni probabilmente non esisterà più neanche la parola “dolore” sul dizionario. Se non lo conosci e non impari a gestirlo non potrai mai essere di aiuto né a chi lo subisce tantomeno a te stesso.

Come scrivi nel tuo diario “non ero preparata al tuo patimento, alla tua fine. Non ero ancora pronta a morire, né a scegliere di sopravvivere”. A tutti coloro che parlano di elaborazione del lutto ed accettazione del lutto, di fatto, credi sia mai possibile solo pensare di accettare questa valanga di dolore così improvvisa ed irreversibile?

La risposta che utilizzo da sei mesi a questa parte è “mi sto adattando a vivere da mutilata”. Elaborare un lutto significa lavorarci. Il significato è intrinseco. Richiede tempo e non bisogna avere fretta. La velocità contemporanea ti lascia per strada rischiando di farti fare veramente male. Ognuno di noi usa le armi che ha a disposizione. Sento di avere il vantaggio di essere persona profondamente libera muovendomi nel campo salvifico dell’Arte. Ma il lutto non si accetta. Non si accetterà mai se l’assente è la persona più importante della tua vita. E quando si comprende questo si è già fatto un passo avanti. L’irreversibilità è schiacciante. Ti toglie il respiro. Quindi fuggire da questo pensiero può essere fatale.  Nelle mie pagine il dolore diventa fisico, tangibile e con uno spazio visibile. Lo guardo negli occhi, lo faccio confessare. Non fuggo, non vado avanti perchè la vita deve andare avanti. Come recita una delle frasi insignificanti che volano intorno: “questa è la vita, purtroppo”. Questa è la morte, rispondo io. So benissimo cosa sia vivere. Vita sono anche i dispiaceri, le delusioni, gli errori, i pianti. Non è solo gioia. Ma niente a che vedere con il baratro che ti ingoia all’improvviso.

Credi che il tuo libro possa essere un esempio di forza e coraggio per chi sopravvive a questo vuoto incolmabile e che non riesce a trovare una motivazione antagonista alla sofferenza?

Nella dedica scrivo “che sia esempio di forza e coraggio…” intendendo egoisticamente esempio per me stessa. Per chi sceglierà di leggerlo, forse, un compagno. Per chi si sente senza speranza posso dire che, come io ho trovato il modo di gridare forte, può trovarlo chiunque. Non sono una scrittrice eppure sto usando la scrittura per sopravvivere. Ho iniziato subito dopo la prima seduta. Le sensazioni che stavo ascoltando erano troppe, troppo intense. Temevo di perderle. Tra i commenti che stanno arrivando, uno l’ho riletto più volte e chiude in questo modo: “È esattamente così che mi sento!”.   Sentirsi compresi è già un piccolo sostegno per queste nostre vite così sbrindellate. Credo sia questo che mi auguro dalla pubblicazione.

Nella presentazione del libro toccanti sono le parole del dottor Giorgio Saitta e della dottoressa Monia Duca nella prefazione. Cosa hanno rappresentato per te queste due figure?

Rappresentano tutt’ora.  Il Dott. Saitta, come anche la Dott.ssa Silva, mi hanno accolto e fatto sentire apprezzata. Hanno dato tanto valore alla mia pubblicazione. Sono profondamente riconoscente. La Dottoressa Monia Duca è un fiore all’occhiello del reparto di Oncologia. Ha battezzato la mia prima esperienza di psicoterapia. Per mio carattere non sarei potuta andare da lei più di tre volte se non fosse così com’è.  Ho sentito da subito che percepiva chiaramente la mia essenza. Credo che ad oggi sia tra le pochissime persone di cui mi possa fidare ciecamente. Ammiro la sua professionalità. Lei è la mia dottoressa. E io sono la sua paziente. C’è una profonda stima reciproca nonostante il doveroso distacco psicoterapeuta-paziente. Lavoriamo sodo entrambe durante le sedute.  Se ho pubblicato questo mio dolore è grazie a lei. Ha compreso che avrei impiegato tempo a decidere. Non ha incalzato. Ha rispettato il mio corso di attesa e riflessione.  Ma sempre vigile al mio fianco. Appoggia con slancio il mio modo di affrontare e lavorare un lutto così devastante.  Credo contenga una piccola magia. Riesce ad incoraggiarmi e sostenermi anche in silenzio.

Troppo giovane per essere vedova, troppo in là con gli anni per costruire senza fatica un ponte che mi permetta di proseguire”. Un tuo pensiero così lucido, una spada nel cuore. Lascio a te una riflessione…

Mi sento violentata nell’anima. La malattia ha strappato la sua vita, la mia spensieratezza. I nostri progetti. Non mi sento forte eppure sto riorganizzando la mia vita. Non perchè bisogna farlo. O perchè la vita deve andare avanti. Perchè avevamo un sentire comune. Perchè erano i nostri progetti, non solo suoi o miei. E anche se ora guido io e lui è sul lato passeggeri, sarà sempre lui ad indicarmi la strada. Come sta facendo da cinquecentotrentaquattro giorni.

Gigliola Marinelli