FACEBOOK IN UFFICIO? IL DATORE DI LAVORO POTREBBE SPIARVI E LICENZIARVI. LEGITTIMAMENTE

Internet, con i suoi contenuti, è accessibile praticamente con ogni mezzo e da ogni dove, incluso il luogo di lavoro, che molto spesso non rappresenta una ‘zona interdetta alla navigazione. Così capita che le persone, trascorrendo al lavoro buona parte della loro giornata, non sempre aspettino le pause per connettersi, ma approfittano dei tempi morti che pur si verificano nel pieno della prestazione lavorativa o, alle volte, la interrompono volontariamente. Nella maggior parte dei casi non c’è di sicuro l’intento di venire meno agli impegni lavorativi, ma semplicemente quello di curare gli aspetti sociali della propria vita privata. La prossimità fisica ed accessibilità rendono per certi aspetti tutto questo ‘naturale‘. Ciò non di meno, dedicarsi a queste attività in maniera non appropriata potrebbe presentare dei rischi.  La casistica ormai è varia. Ad esempio, tempo fa il Tribunale di Milano ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che aveva pubblicato sul suo profilo Facebook, accessibile a chiunque, foto scattate nel reparto, in atteggiamento non lavorativo, accompagnate da commenti sconvenienti e offensivi nei confronti dell’azienda; inoltre, era stato contestato che lo stesso dipendente aveva utilizzato un computer aziendale per visitare siti internet a contenuto pornografico. In questo caso il lavoratore, oltre a non aver correttamente fornito la sua prestazione, dileggiando il datore di lavoro avrebbe violato quei doveri fondamentali di correttezza e/o legalità e civile convivenza immediatamente conoscibili da chiunque. In un altro caso più peculiare, invece, il responsabile del personale ha avuto il sospetto che un operaio si dedicasse al suo profilo Facebook e non al lavoro, causando problemi alla produzione; lo stesso responsabile è stato allora autorizzato ad aprire un account civetta con il quale ha attirato l’attenzione del lavoratore indagato, che anziché astenersi dal ricambiare le attenzioni ha ceduto alla tentazione di relazionarsi – anche durante il suo lavoro – con il nuovo contatto.

Il licenziamento disciplinare, dunque, è intervenuto a seguito di una vera e propria indagine che sostanzialmente ha testato l’affidabilità del lavoratore; il licenziamento, inizialmente dichiarato illegittimo dal Tribunale, è stato invece dichiarato valido dalla Corte d’Appello e, infine, dalla Cassazione. La Suprema Corte ha ritenuto infatti rispettato il principio secondo il quale sono legittimi i controlli, anche occulti, diretti a tutelare beni del patrimonio aziendale o a impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti, purché i controlli non siano mirati a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro; come per il caso dell’account civetta, per bene aziendale può essere inteso anche il regolare funzionamento e la sicurezza dell’impianto al quale il lavoratore è addetto nonché, più in generale, i beni materiali veri e propri giustificandosi, esemplificativamente, le registrazioni video effettuate all’esterno dei locali aziendali per mere finalità “difensive”.Si ritiene comunemente che questo genere di controlli (che possono essere svolti da personale interno o da agenzie investigative) non rappresentino una lesione della dignità e della riservatezza del lavoratore, che verrebbero invece pregiudicate allorquando i controlli venissero effettuati con un uso esasperato della tecnologia tale da rendere la vigilanza continua e costante (stile ‘Grande fratello‘), quindi preventiva e mirata specificamente a verificare – come detto – lo svolgimento della prestazione lavorativa in quanto tale.  Detto questo, ci si rende perfettamente conto che in alcuni casi la linea di confine potrebbe risultare estremamente labile e sottile soprattutto alla luce della nuova normativa. L’art. 4 dello statuto dei lavoratori, che disciplina la materia, è stato riscritto dal governo in forza della legge delega n. 183/2014 altrimenti detta Jobs Act.

La Cassazione ha messo nero su bianco una vera e propria stretta per i dipendenti. L’azienda, infatti, secondo quanto stabilito dalla sentenza 782/2016, può licenziare il dipendente perditempo che, puntualmente, durante le ore di lavoro, va a dare una sbirciatina su Facebook. “Sottrarre tempo e strumenti, che devono essere rivolti a servire l’azienda, per scopi invece puramente personali, come chattare o guardare le foto postate dagli amici – si legge – viola il patto di fiducia che lega il dipendente. all’azienda. È pertanto legittimo il licenziamento nei casi più gravi, quando cioè le ore spese sul social network sono numerose, anche a seguito di richiami precedenti“. Il datore di lavoro, dopo aver sgridato il suo dipendente, può controllare la cronologia della navigazione su internet senza ledere in qualche modo la privacy del lavoratore. “È legittimo – si legge nella sentenza in commento – il licenziamento disciplinare per giusta causa a carico del dipendente che sta troppo tempo su Facebook. Tale condotta è particolarmente grave solo quando il datore di lavoro riesce a dimostrare che il tempo speso sul social network è stato elevato“. Sarà poi il giudice a dover giudicare il caso e se il tempo passato su Facebook è efettivamente troppo. Come riporta il sito la leggepertutti, nel caso preso in questione in tribunale si era trattato di 6 mila accessi a internet, per motivi privati, in diciotto mesi. Di questi accessi, ben 4.500 erano stati effettuati solo su Facebook: pari a circa 16 accessi al giorno su tre ore in media di lavoro. Troppo per la Suprema Corte che ha deciso di dare ragione al datore di lavoro e di giustificare, quindi, il licenziamento.

(Tratto da un articolo di Carlo A. Facile)

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