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BUFALE: PRESTO IL MINISTERO DELLA VERITA’. QUELLA AMAREZZA DELLA SERA, O QUELLA PUZZA DI CENSURA…

“Tu quoque, Brute, fili mi!” è uno dei pochi latinismi che, una volta usciti da un qualsiasi liceo, resta nei microchip memonici di tante capocce adamantine. Eppure nella celeberrima congiura delle “Idi di Marzo”, pare che il Giulio Cesare trafitto a morte non pronunciò affatto questa frase all’indirizzo del figlio (che poi figlio non era, ma solo un semplice “pupillo”) Marco Giunio Bruto. Ad attribuirgliela fu lo storico Cassio Dione, il quale però era monocorde nel parlare (e scrivere) soltanto in lingua greca. Mentre per il più quotato Svetonio, il primo dei dodici Cesari esalò soltanto un flebile gemito. Quindi si tratta di un’esclamazione probabilmente falsa, e se vera comunque espressa in greco (lingua che il “dictator” favellava alla grande) e non in latino, come i tramandi ginnasiali ci dicono.

Questo “rewind” storico è solo uno dei tanti che dimostra come le “bufale”, risalite sul palcoscenico della disputa pubblica in questi giorni, esistono da molto prima che il prode Zuckerberg plasmasse Facebook. Al pari delle “fake news”, che con buonissima pace di Grillo sono parte della vita dell’uomo da ben prima che il teutonico Gutenberg si inventasse (era il 1455) la stampa a caratteri mobili. Dai crociati gelosoni e possessivi che prima di partire per la Terra Santa facevano indossare alle donne cinture di castità (peccato però che le uniche di cui si ha traccia sono del 1800, in linea di massima svariati secoli dopo) a Einstein che era una mezza pippa a scuola (il contrario: a 14 anni risolveva faccende di algebra scorbutiche anche per i matematici del tempo), la storia è costellata di “cazzatone” fatte circolare e assurte poi a verità. E se non è invece una menzogna l’assunto di Engels secondo il quale nella storia tutto si presenta due volte prima come tragedia e poi come farsa, oggi possiamo asserire con voce in capitolo che i social network ci hanno scaraventato in un sentiero farsesco impervio e angusto.

La politica nel 2016 appena salutato è riuscita a rendere il concetto di “post-verità”, formulato dall’Oxford Dictionary, vuoto come un fast food la sera della vigilia di Natale. Il lascito è che ora udiamo il frastuono del grido di battaglia di capi di governo, ministri, massmediologi, esperti, guru, santoni e alchimisti della comunicazione contro le news “fetecchia”, morbo che sta impestando attraverso i social network l’opinione pubblica. L’ultimo a lanciare urla di lotta senza quartiere alle bufale è stato Giovanni Pitruzzella, numero uno nostrano dell’Antitrust. Secondo il quale la Rete tutta è un grammofono troppo potente per balle e castronerie, e si inizia a sentire l’esigenza di un’istituzione terza che vigili e usi la scure contro i contenuti farlocchi. Un “tribunale della verità”, insomma, che ridia dignità e lustro al Danubio di informazioni che ogni giorno ci vediamo scorrere davanti.

La domanda è: ma ci siamo davvero così rincretiniti da credere a ogni panzana formato “asino che vola”? No, affatto. Tutti noi siamo cresciuti con zii, nonne, suocere e cognati che “l’ho sentito alla radio…” o “sta scritto sul giornale…”, “lo dice quel politico, coso, come se chiama…”. Siamo stati sempre un po’ creduloni, (anche prima dei like e dei “retweet”) e crapuloni nel consumare fandonie, profezie inverosimili e dicerie taroccate senza porci troppi interrogativi. “Quando un governo non fa ciò che vuole il popolo, va cacciato via anche con mazze e pietre” – è una frase che abbiamo appioppato al grande Sandro Pertini in occasione di ogni corteuccio di protesta ben prima che divenisse un meme viralissimo su Facebook. Ebbene: il capo dello stato più amato della storia repubblicana (che pure sapeva essere decisamente garibaldino) quella frase non l’ha mai pronunciata. Però è talmente tanto che la spacciamo come sua che ora fa parte del suo colorito aforismario.

Pitruzzella in parte ha ragione: sta benedetta Rete ha aumentato e non poco il voltaggio delle cazzate. Però non ne siamo più indifesi rispetto al passato, anzi. I politici da sempre ci riempiono i timpani di annunci non veri, e le bugie a fin di “captatio benevelontiae” son datate a Cicerone e ai maestri dell’oratoria di qualche millennio addietro. L’orda barbarica di fake news di Facebook, anche se a vedere molte bacheche non sembrerebbe, ha semmai accresciuto in noi la diffidenza e reso le nostre pupille più vispe in sede di verifica: una “zizania mentale” inesorabile, che in futuro ci porterà a essere sempre più guardinghi di fronte a link dal titolo esca alquanto sospetti.

Il problema invece è un altro e riguarda quella che diversi studiosi del web chiamano oggi la “cristallizzazione” delle opinioni. In Rete ognuno di noi va a caccia di notizie, foto, video e testi che si incastrino bene in primis nel proprio equipaggiamento di linguaggi, in seconda battuta nel personale “range” di interessi, e in ultima e più importante istanza nell’insieme delle proprie opinioni. Chi ama il calcio, ad esempio, è portato a cercarsi i contenuti in base a curiosità, gusti e partigianerie, e ad interagire con utenti che parlino stessa lingua e condividano stessa passione. E in politica è fin troppo ovvio che un simpatizzante grillino piazzerà un like sotto a un post del blog di Grillo, così come un elettore leghista sarà più portato a retwittare Salvini o un sostenitore del PD a riportare dichiarazioni di Renzi, Boschi, Delrio e compagnia nazarena. E qualora si condivida un link di contenuto “nemico”, lo si fa (e lo si farà) quasi esclusivamente con moti di scherno, sarcasmo e molto spesso persino di turpe insulto. Non vedrete mai un ultrà Dem mettere un like a un titolo condivisibile del blog a 5 Stelle, così come è inconcepibile pensare a un pentastellato che commenti senza contumelie e con plausi un link de L’Unità online.

L’emotività sul web è tutto: cerchiamo sì ciò che ci interessa (Zuckerberg si frega le mani e coi suoi malefici algoritmi ci seleziona e screma “cibo” telematico da consumare) ma il discorso è che crediamo a ciò che vogliamo credere. Il caso del web editor americano creatore di portali fake news in chiave anti-Trump è emblematico: in campagna elettorale ha diffuso così tante puttanate sul tycoon che alla fine molti statunitensi non solo se le sono bevute, ma lo hanno persino spintonato verso la Casa Bianca.

Può dunque un soggetto imparziale e terzo come quello invocato Pitruzzella liberarci dal “mal di frottole”? Oppure, può la giuria del popolo che sa tanto di Patto di Varsavia sparata da Grillo scongiurare il rischio fake su giornali e tv? Deve nascere un “ministero della Verità” a Palazzo Chigi? No, non deve. Perché tutte queste proposte puzzano tanto di censura. Una puzza che, come si dice a Roma, accora. E che andrebbe solo a tarpare ogni germe di difesa immunitaria che l’utente qualunque può crearsi da solo contro le bufale. Le quali ci stanno dall’era di Giulio Cesare e continuano a esserci. Ma che, molto profeticamente, saranno sempre più “sgamabili”.

Valerio Mingarelli