DA ‘UFFICIALE E GENTILONI’ A ‘TUTTI GLI UOMINI DEL PRECEDENTE’: FILMONE O FILMETTO?

“Ministri, prego, scalate di un posto!”. E’ nato così, in soldoni, il primo governo Gentiloni Silveri (anzi, Sliverj). Nel gioco della sedia imbastito nella “Sala delle feste” del Quirinale, l’unica a finire col coccige sul tappeto ricamato è stata Stefania Giannini, dimenticabile artefice della “Buona Scuola”, rea di aver attirato su Renzi l’acredine di professori, maestre, bidelli, lavagne, astucci e goniometri, ma di certo non l’unica della ciurma governativa ad aver messo nafta nei motori del grande carro (rivelatosi poi un autoarticolato) del “No” al referendum. Ma tant’è. Se il 4 dicembre doveva rappresentare il giorno di una nuova “Annunciazione”, a Natale ritroveremo più o meno lo stesso presepe: è cambiato sì il “bambinello”, ma gli altri figuranti sono sempre gli stessi. Con la Boschi sempre nel ruolo della Madonna (e in più il prestigioso saio di sottosegretaria alla Presidenza) e Luca Lotti promosso da angelo custode del messia a San Giuseppe “monitoratore” del supplente con un ministero creato ad hoc. Non solo. Nei ruoli del bue e dell’asinello rimangono in scena il vituperato Giuliano Poletti, stratega dell’aborrito Jobs Act e degli odiati voucher, e la felpata Marianna Madia, “mente” di quella riforma della Pubblica Amministrazione presa a colpi di fiocina nei suoi punti salienti dalla Corte Costituzionale. Tutti al loro posto anche i pastorelli “Dem” capi-corrente come Franceschini (Cultura), Orlando (Giustizia) e Martina (Agricoltura), al pari dei tre Re Magi di NCD Lorenzin, Costa e Alfano, quest’ultimo passato dal ruolo di “Gaspare” all’Interno a quello di “Melchiorre” agli Esteri (dalla mirra all’oro dunque: tranquilli, la Farnesina ha già attivato l’unità di crisi e gli interpreti sono stati tutti dotati di siringa e laccio emostatico). Qualche new entry, come la sempreverde Finocchiaro (autrice occulta di svariati paragrafi della riforma Boschi, ndr) e la “rosso porpora” Valeria Fedeli, chiamata a sedersi sul pericolante sgabello di viale Trastevere lasciato libero appunto dalla Giannini.

Com’è possibile? – si sono domandati tutti. Ma proprio tutti eh: persino Repubblica e Corriere, sempre col fioretto bello saldo in mano quando c’era da criticare Renzi durante la sua avventura al soglio “chigiano”, ieri hanno impugnato la scimitarra e rifilato stoccate pesanti al “dominus” gigliato. Cos’ha in testa questo qua? La Waterloo referendaria non gli è bastata? Sono questi gli interrogativi che frullano nelle calotte craniche un po’ di tutti.

Proviamo a capirci qualcosa. Gentiloni è persona seria e preparata. Certo, nei talk show televisivi fa l’effetto di una fiala di Valium messa in una tisana di tiglio, però ha un pedigree di rispetto. Discendente di una nobile casata marchigiana (tra i suoi avi Vincenzo Gentiloni, quello del “patto” del 1913 col quale si mise la parola fine al “non expedit” della partecipazione dei cattolici alla vita politica) e cresciuto in un istituto montessorriano, da adolescente svestì i panni del chierichetto per brandire il megafono, folgorato dal maoismo e dal movimentismo della sinistra extra-parlamentare. Negli anni successivi fu un po’ di tutto: giornalista, pacifista, ecologista e negli anni ’90 fido scudiero in Campidoglio del sindaco di Roma Rutelli. Nel secondo governo Prodi fu ministro delle Telecomunicazioni: successe a Gasparri (gli piacque vincere facile). Nonostante ciò, il suo tentativo di regolamentare i contenuti web fu preso a pallate dal Parlamento e da tutti i gestori di un semplice dominio internet (ammise l’errore però). E si arriva agli anni renziani e all’esperienza alla Farnesina. Ecco: un uomo con sto popò di passato avrebbe tutto ora per essere autonomo sulla plancia di comando. Il satanasso fiorentino invece non gli ha esaudito neppure il desiderio veniale di mettere l’amico fraterno Ermete Realacci all’Ambiente. E’ nato così un governo “fotocopia”, sbiadito remake dei governi “balneari” guidati negli anni ’60 da Giovanni Leone, i quali nascevano i primi di giugno per poi avere l’estrema unzione a dicembre ma con i principali alfieri democristiani sempre saldissimi coi rispettivi lati B sui sofà ministeriali.

Per molti si tratta di un autogol di proporzioni bibliche. Di Renzi, ovvio: se cercava un vicoletto per sgattaiolare via dalla spirale d’odio che (a detta sua) una fetta d’Italia ha nei suoi confronti, beh, pare essersi infilato nel più classico dei vicoli ciechi. Molti analisti ed espertoni (che ci azzeccano sempre meno, ma in un “troiaio” politico simile c’è da capirli) si aspettavano un “filmone”, anzi un kolossal, con volti diversi e magari più sobri e paludati, da proiettare fino al 2018 per distrarre il popolo bue e fargli dimenticare la gazzarra (e la scoppola) referendaria, per poi ripresentarsi con una verginità nuova di pacca. Invece altro che cult movie, qui siamo al (già visto) cortometraggio-lampo: da centravanti il golden boy toscano si è messo a fare il direttore sportivo. Con un intento preciso: tenere per la collottola il malcapitato neo-premier e nel frattempo fare carne di porco di tutti i suoi oppositori all’interno del partito, nel quale ha già aperto “manu militari” la direzione permanente e annunciato l’eventualità di un congresso anticipato che si preannuncia come una santabarbara definitiva. Di fronte a un fare così arrembante e guerrafondaio, le opposizioni, specie quelle più garibaldine come M5S e Lega, con l’acquolina in bocca annusano già l’odore del sangue.

A meno che non sia in preda a qualche disturbo schizoide o a qualche sostanza psicotica, il disegno di Renzi è (quasi) chiaro: aspettare che il 24 gennaio la Consulta si pronunci (e prenda a randellate) l’Italicum e lanciare poi definitivamente il guanto di sfida elettorale. Magari per fine giugno. A bagnomaria e nelle sabbie mobili del Nazareno fino al 2018 non vuole restarci, e come per il referendum brama un “all-in”, per usare una metafora pokeristica. Sa che se l’esperienza dell’esecutivo Gentiloni dovesse finire nel pantano, le giovani carriere politiche dei pretoriani Boschi, Lotti, Madia e compagnia twittante finirebbero in frantumi, ma non gli importa. Ribaltando il dogma andreottiano, in cuor suo preferisce tirare le cuoia invece di tirare a campare. Consapevole che una volta ridotta in poltiglia la minoranza Dem nel partito, un arrabattato sistema elettorale proporzionale gli spalancherebbe di nuovo le porte di Palazzo Chigi.

Il governo del tenue Gentiloni Silverj, come ha ammesso nel discorso alla Camera lo stesso ex simpatizzante maoista, dunque ha la scadenza come una mozzarella Vallelata. Ad avvalorare questa tesi c’è poi l’assenza, nella Betlemme rimasta pressoché intonsa, di un pastore “pesante” mai avvicinatosi alla mangiatoia nei 33 mesi di governo Renzi, ma bravo a rimanere sotto i riflettori della Cometa e a interpretarne i bagliori: Denis Verdini. Lui e i suoi, lasciati senza neanche un puf governativo, oggi voteranno contro l’intrepido Gentiloni. Il quale, seppur di misura, avrà comunque disco verde. Tra gruppo misto, sigle e siglette però da domani i numeri a Palazzo Madama saranno striminzitissimi: se Verdini era una stampella d’acciaio inossidabile coi suoi 18 (inclusa Scelta Civica) senatori, a Gentiloni ora rimarranno solo grucce di compensato. A Renzi la cosa non dispiace: i senatori PD (destinati al macero solo 15 giorni fa con la riforma Boschi) in questo modo dovranno votare sempre compatti, e sarà più facile stanare mal di pancia e diverticoli. E anche individuare eventuali traditori, qualora Gentiloni venisse disarcionato, da punire poi nella tenzone campale nazarena. Una cosa è certa a tutti negli anfratti parlamentari: altro che “Tu scendi dalle stelle” o “Adeste Fideles”, al Senato il presepe riconfermato si dovrà preparare a sessioni di Zumba.

Valerio Mingarelli