EMANUELE SATOLLI: VI RACCONTO IL MIO GIORNALISMO FATTO DI IMMAGINI

Si è conclusa da pochi giorni la venticinquesima edizione del Premio Nazionale Gentile da Fabriano. Tra i premiati il fabrianese Emanuele Satolli, nella Sezione Carlo Bo per il giornalismo e la comunicazione. Emanuele ha frequentato la Scuola di giornalismo di Torino, specializzandosi poi in fotogiornalismo. Collaboratore della prestigiosa rivista Time, i suoi lavori fotografici hanno testimoniato e narrato i conflitti in Medio Oriente fino al suo recente reportage dall’Afghanistan. Lo abbiamo raggiunto per conoscere di più Emanuele, un fabrianese che sta tenendo alto il nome della nostra città nel mondo.

Emanuele, come nasce la sua passione per la fotografia ed in particolare per il fotogiornalismo?

Mi è sempre piaciuto fotografare sin quando ero adolescente. È sempre stata una fotografia mia, personale, di me e dei miei amici e della mia famiglia. È stato poi durante l’università che ho frequentato un corso di sviluppo e stampa in camera oscura e me ne sono costruita poi una in casa mia. La passione per il fotogiornalismo cresceva di pari passo con il mio interesse per le notizie legate ai principali avvenimenti esteri. Mi informavo leggendo ma anche guardando molte fotografie. A un certo punto, ero in Guatemala, decisi che volevo fare il giornalista. Raccontare quegli avvenimenti che attiravano così tanto la mia attenzione. Durante i due anni della scuola di giornalismo però, dove non c’era un corso di fotogiornalismo, sentivo dei limiti, miei personali, nell’esprimermi e raccontare dei fatti con la scrittura. Era come se, per me, le parole fossero limitate. Temevo, nella mia testa, che se avessi usato la scrittura per fare il reporter, sarei finito a usare sempre le stesse parole. Quando sono diventato un giornalista professionista, era chiaro per me che la scrittura non fosse il mio mezzo per esprimermi e, dato che già mi ero avvicinato alla fotografia, ho deciso di usarla come mio linguaggio personale per raccontare delle storie.

Da molti anni è presente in Medio Oriente, dove ha testimoniato i fatti più gravi avvenuti in quelle terre così tormentate. Quali eventi ha avuto modo di “raccontare” attraverso le sue immagini?

Sicuramente la battaglia di Mosul, 2016-2017, è stata uno degli eventi più importanti che ho raccontato negli ultimi anni. Se si pensa anche solo alla portata simbolica di aver riconquistato la città dove Abū Bakr al-Baghdādī, nel 2014, aveva proclamato la nascita dello Stato Islamico. Oltre a ciò è stata anche una guerra che ha fatto un numero elevatissimo di vittime, soprattutto tra i civili. Nel 2019, invece, in Libia sono stato a bordo delle motovedette libiche che intercettavano i barconi dei migranti in mezzo al Mediterraneo e li riportavano a Tripoli. Vedere in che condizioni viaggiano, ammassati per giorni, con un po’ di pane e acqua, in un mare infinito spietato come un deserto, dove rischiano di perdersi e di affondare, è stato molto toccante per me. Soprattutto vederli poi rassegnati a bordo delle motovedette sapendo che sarebbero stati riportati in Libia, e rinchiusi nei centri di detenzione. Che faremmo meglio a chiamare con il loro vero nome: centri di sequestro e torture.

Parliamo del suo ultimissimo reportage nelle settimane che hanno preceduto la presa di Kabul da parte dei talebani. Quali sensazioni ed emozioni ha percepito in quei giorni drammatici e come sono stati vissuti dalla popolazione afgana?

Sono stato in Afhanistan ad aprile, pochi mesi prima dell’arrivo dei talebani a Kabul. C’era già la sensazione che i talebani avrebbero ripreso il potere, anche se non si pensava che tutto sarebbe precipitato così in fretta. C’era preoccupazione, soprattutto da parte della popolazione civile che negli ultimi venti anni si è vista riconoscere alcuni diritti civili prima negati, di dover rinunciare di nuovo a tutto ciò, conquistato con fatica, e di sprofondare di nuovo in una realtà estremamente conservatrice. E non mi riferisco solo alle donne. Timori che ho paura saranno confermati, nonostante l’immagine di facciata che i talebani stanno proponendo all’Occidente, di un movimento più aperto e tollerante rispetto al passato.

Mentre svolge il suo lavoro nelle zone di guerra è riuscito ad intrecciare rapporti umani e di amicizia con le popolazioni di quei luoghi?

Nel lavoro di giornalista è sempre molto importante costruire una rete solida di contatti, di relazioni. Cerco sempre quindi di intrecciare delle relazioni con le persone che incontro così da rimanere in contatto. Capita poi che con alcune di queste persone, vuoi anche perché abbiamo vissuto insieme delle situazioni molto forti, si arrivi a un rapporto più personale e profondo, che diventa un’amicizia. È successo con Said nella striscia di Gaza o con Tareq, un colonnello dell’esercito iracheno. Ci sentiamo spesso e mi sono anche rivisto con loro più volte.

Attraverso le sue foto è ormai da anni la voce narrante dei gravissimi episodi di violenza di cui sono protagonisti migliaia di esseri umani. Come vive intimamente questo ruolo ed anche questa responsabilità nella divulgazione di immagini spesso di forte impatto emotivo?

Sento una responsabilità nel dover mostrare il volto, di dare una faccia, a chi si trova, suo malgrado, a fare i conti con una guerra. Nei miei racconti cerco di far emergere un senso di umanità. Di limare la distanza che crea la retorica di massa della comunicazione. Come sono vaghe, anche figurativamente parlando, parole come ‘danno collaterale’ o ‘esecuzioni sommarie’? Ecco, il mio sforzo è quello di mostrare gli effetti reali di queste parole retoriche. Di far emergere il volto della persona che subisce questi eventi.

Nei giorni scorsi ha ricevuto il Premio Fabriano, come è stato tornare nella sua città per ritirare un riconoscimento così prestigioso?

È stato molto bello. Già di per sé il premio è molto prestigioso, inoltre, riceverlo nella mia città è stato motivo di grande orgoglio. Sono stato sempre supportato dalla mia famiglia, le zie, i cugini, gli amici. Erano a teatro anche sabato scorso. Oltre a loro, sentire la vicinanza di molti fabrianesi che erano lì presenti è stato molto piacevole. Ma devo dire che anche in passato i fabrianesi e Fabriano si sono sempre dimostrati interessati ai miei lavori.

Ha vissuto ad Istanbul e girato il mondo per il suo lavoro, affrontando anche forti rischi per la sua incolumità. Quanto coraggio ci vuole per lasciare la propria terra d’origine per seguire i propri sogni? Consiglierebbe ai giovani di intraprendere lo stesso suo percorso?

Da alcuni mesi mi sono trasferito a vivere a Milano, ma tengo ancora un piede a Istanbul. Per esempio ora sto andando in Turchia per tre settimane. Sì credo che si possa chiamare coraggio, quello di cui abbiamo bisogno per spingerci fuori dalla nostra terra d’origine e muoverci verso nuove possibilità. In fondo le paure e le situazioni difficili che immaginiamo dover affrontare prima di iniziare qualsiasi cosa, sono sempre più grandi rispetto a come poi la realtà ce le presenta di fronte. Ecco, più che consigliare ai giovani di intraprendere il mio stesso percorso – che poi ognuno trova il suo, unico e personale – se c’è una cosa che posso dire loro è quella di ascoltare i timori e le preoccupazioni che montano in testa prima di iniziare qualcosa di nuovo o trasferirsi in un altro paese, ma di non lasciarsene intimorire perché le situazioni, una volta che le si affrontano, si dipanano e risultano meno complicate di come le immaginavamo da lontano.

Gigliola Marinelli