AMARCORD ELETTORALE ‘LIGHT’/3: IL PENTAPARTITO, IL CINGHIALE SATRAPO E LO SMOTTAMENTO

Ed eccoci agli anni ’80 coi suoi colori fluo, le cinture “Charro”, la musica dance “computerizzata” e lo yuppismo spinto. Nel primo giorno del decennio (1 gennaio 1980) l’Italia saluta Pietro Nenni, centravanti del Garofano e figura tra le più illustri del ‘900 (leader più di pancreas che di cervello, per questo ancor più amato). Decennio che si chiude, invece, con un muro preso a picconate qualche parallelo più su, nella Berlino tagliata in due come una mela: il riverbero di quelle immagini sarà l’inizio del crepuscolo anche per tutto il sistemone della Prima Repubblica, che entrerà boccheggiante nei ’90 per poi sbriciolarsi dinanzi alla furia (per tanti sin troppo cieca) del pool di Mani Pulite.

26-27 giugno 1983

In Italia sta accadendo di tutto e di più, nell’aurora di quegli ’80. In Sicilia quotidiane gragnole di bossoli fanno ricche le pompe funebri: i ‘viddani’ corleonesi vogliono scalare il gotha mafioso. Le calibro 38 e gli AK47 non risparmiano nemmeno uomini di Stato quali il procuratore Costa e il generale Dalla Chiesa, e politici di varia cromatura, dal governatore Diccì Piersanti Mattarella all’alfiere comunista dell’isola Pio La Torre. A casa di un materassaio di Castiglion Fibocchi, in Toscana, viene trovato l’elenco dei tesserati a un’accolita del Grand’Oriente d’Italia nota come Propaganda 2 (P2): lo sconquasso è abnorme e la caccia alle streghe pure, tanto che il governo del mellifluo marchigiano Forlani ci lascia le penne (è l’81). Dodici mesi dopo, un potente banchiere che ha dispensato quattrini a destra e manca viene trovato appeso ad un ponte sul Tamigi. Si chiama Roberto Calvi e l’essere potentissimo ma anche inquieto e intrallazzone lo ha ficcato in mezzo a un fatale groviglio di interessi e di misteri. E di conventicole di maramaldi e brutti ceffi. Detto di Nenni passato a miglior vita, il nuovo satrapo del Garofano è un quasi cinquantenne abile, callido e risoluto: si chiama Benedetto, ma tutti lo chiamano Bettino. Ha un obiettivo: spezzare il flirt clerical-marxista nato a fine anni ’70. Detesta (ricambiato) i comunisti, infatti, e fa il paracesto coi democristiani facendosi amici i più tenui (Forlani) e guerreggiando coi più tosti (De Mita). Sì, è una macchina da guerra questo Craxi: disarciona Fanfani e costringe il prode Pertini (socialista come lui, ma con cui bisticcerà sempre) alle urne anticipate. Il Garofano risale in doppia cifra, la Dc claudica un po’ e De Mita deve assemblare un drappello di sigle che passerà alla storia come “Pentapartito”. Il cinghialone varca i tornelli palazzo Chigi, e sarà la permanenza più lunga della Prima Repubblica.

14-15 giugno 1987

Sono anni di scorpacciate, lottizzazioni voraci, raccomandazioni, rutti e borborigmi. De Mita, che al di là dello stato confusionale con cui si attorciglia tra gli indicativi, i condizionali e i congiuntivi è uno difficile da schienare, lancia dardi d’odio verso Craxi un giorno sì e l’altro pure. Il panzer socialista dal canto suo impera, vince uno sdrucciolevole referendum sulla scala mobile di cui il suo governo aveva congelato ben 4 punti (parliamo dell’adeguamento dei salari al costo della vita), e sbroglia da volpe consumata il nodo gordiano di Sigonella, sul quale l’Italia rischia di giocarsi il didietro a livello di relazioni internazionali. Un dioscuro del Transatlantico non c’è più: a Padova (è l’84) si ingolfa il fisico di Enrico Berlinguer. Il sultano incontrastato delle Botteghe Oscure riesce a rientrare in albergo, ma entra in coma e dopo pochi giorni rende l’anima a Dio, Marx ed Engels. Ai funerali ettolitri di lacrime e un milione di bipedi partecipanti: iniziano quel giorno anche le lunghissime esequie della falce e del martello nostrani, che si consumeranno di lì a un lustro. Dunque veniamo all’87: De Mita l’anno prima ha disarcionato l’impunito Bettino, e per preparare le urne c’è un esecutivo monocolore guidato dall’immarcescibile Fanfani. Si arriva al voto, e per il PCI guidato dallo scialbo Natta è una Caporetto: i comunisti regalano tre punti percentuali che finiscono dritti nel ventre del “cinghialone” socialista. Saranno le loro ultime elezioni sotto il bandierone rosso. Diventa premier il quasi carneade Goria, più giovane di tutti i suoi predecessori, e entrano in Parlamento cantanti come Domenico Modugno e Gino Paoli e registi come Giorgio Strehler, ma a fare scalpore è l’elezione di Ilona Staller, al secolo Cicciolina, reginetta del porno e del “partito dell’amore”, scaraventata nell’emiciclo dal sempre più intrepido e digiunatore Marco Pannella.

5-6 aprile 1992

Siamo al canto del cigno. Anzi, dell’albatros.  Come già accennato, due anni e mezzo prima è stato abbattuto il muro di Berlino, simulacro dei due blocchi contrapposti in cui il pianeta è stato suddiviso dopo le ultime cannonate della guerra mondiale. In un hangar della Bolognina, pochi giorno dopo, l’estrema unzione al PCI e l’inizio della svolta che seppellisce la corrazzata rossa e fa germogliare la Quercia sotto la dicitura PDS. A quel 1992 ci si arriva annaspando: l’intero sistema tiene il fiato coi denti. A febbraio, in piena campagna elettorale, un fatto apparentemente innocuo di cronaca giudiziaria si rivela il vaso di Pandora dal quale, di lì a poco, usciranno tutti i liquami di una repubblica ormai ridotta a cloaca. Siamo alla “Baggina”, nickname affibbiato al Pio Albergo Trivulzio: si tratta di una casa per anziani nota a tutta la borghesia impellicciata di quella Milano che nel decennio precedente è stata “da bere”. Le redini dell’istituto sono in mano a un peso massimo del socialismo che domina in città: Mario Chiesa. Quella mattina l’uomo riceve un certo Magni, titolare di un’impresa di pulizie, che tira fuori un obolo da 70 carte col Caravaggio disegnato sopra: sono sette milioni di lire. Chiesa conta il malloppo e lo infila in un cassetto, non consapevole di una microspia abbarbicata sotto al bavero della giacca di Magni. Che esce dalla porta, e lascia il passo a un uomo accigliato in abito grigio pret à porter. Si chiama Antonio Di Pietro, e di lavoro fa il Pubblico Ministero nonostante l’eloquio sintatticamente ballerino. Il dado (e il dato) è tratto. Craxi, che sin lì si considerava un dominus intoccabile, bolla il suo scherano Chiesa come “mariuolo”. Conscio, però, che non lo era meno degli altri e neppure meno di lui. Cossiga dalla torretta del Quirinale fa partire colpi di mortaio contro tutto e tutti: non può più stare arroccato lassù e va verso le dimissioni. Mentre la procura di Milano fa man bassa di tanti artisti del taglieggiamento, si va verso il voto con un Pds guidato da Occhetto convinto di essere la grande novità, ma cieco di fronte al fatto che i veri nuovi sono i ringhianti energumeni della Lega Nord di Umberto Bossi, senatore uscente dalla prosopopea truculenta e dall’arlotto facile, schifito dalle spigole della buvette del Senato e amante della pizza, degli ossi buchi e della cedrata Tassoni, porta-vessillo dell’autonomismo del Nord e della demagogia anti-magna magna. Elegge 55 deputati e 25 senatori, di fronte alle pupille sgranate di tutti i sapientoni dell’epoca. Il Garofano vede cadere i petali, la Dc resta in piedi nelle vesti dell’orchestra del Titanic (29%, minimo da quando esiste), il governo non nasce, la tensione è alle stelle e il 23 maggio, mentre si cerca qualcuno da spedire al Colle, 500 kg di tritolo posti sotto a un casello autostradale fanno saltare in aria Giovanni Falcone. Al Quirinale, dopo giorni di burrasca, va Scalfaro. Che dà l’incarico a giugno al dottor Sottile Giuliano Amato: sarà l’ultimo premier politico della Prima Repubblica, che va verso il tremendo smottamento.

TO BE CONTINUED

Valerio Mingarelli