BENALTRISTI COMPULSIVI

Qualche giorno fa al telefono sento questo amico, critico letterario di fama, che con una battuta mi dice, riferendosi alla nostra generazione : “Tutto è cambiato ma noi eravamo dei presuntuosi”. E la battuta non ha smesso di accompagnarmi per tutti questi giorni. Non so se dipende dal tempo, dallo spirito del tempo o da noi, ma a conti fatti la generazione dei quaranta cinquantenni mi appare come un drappello di persone fuori fuoco, sempre spostate in avanti o troppo indietro rispetto alla realtà. Non parlo semplicemente di certi mondi come il lavoro o la famiglia e le relazioni personali, perché per quelli c’è sempre la scusa dell’epoca liquida, mi riferisco più che altro alla percezione di se stessi, a quello che i filosofi hanno chiamato il senso di sé. Spesso mi chiedo, di fronte al disastro delle aspettative deluse o dei fallimenti personali dove eravamo? Come è stato possibile non accorgersi di quello che stava accadendo.

Tutto cambiava ma noi? Per prima cosa la nostra è stata una generazione di transizione, colpita dal passaggio rapido del mondo da una configurazione a un’altra. Diremmo dal moderno al post, oppure dalle grandi narrazioni alla fine della storia, dall’industria alla fine del primato. I modelli di riferimento qui possono essere tanti, ma quello che conta è la risonanza individuale. Ci avevano raccontato tante balle, questo sì, soprattutto la grande menzogna del sacrificio che sarebbe stato premiato, ad ogni livello. Familiare se fossimo stati con la stessa donna, lavorativo, se avessimo sgobbato duro, ma anche morale, se avessimo ripudiato tentazioni e leggerezza. Se avessimo… Un periodo ipotetico infinito lungo almeno una esistenza. Era un mondo ingenuo quello della nostra infanzia e in parte della nostra formazione. Quando ci accorgemmo del tradimento era ovviamente troppo tardi e non sarebbero bastati a illuminarci i racconti deliranti e terribili di Bret Easton Ellis che stava rappresentando tutto questo. Ci sentivamo in credito con l’esistenza, dovevamo recuperare. Ecco il perché di queste vite interrotte e un po’ buttate a cazzo: matrimoni falliti per dire e fallimenti lavorativi.

Ma poi c’è un’altra cosa che conta, sospettavamo (e continuiamo a sospettare) della realtà. Forse non facevamo male, la realtà se lo meritava. Ma a ben vedere eravamo stati educati alla coscienza infelice, a quell’idea che ciò che è  è sempre una pallida approssimazione di quello che dovrebbe essere. Eravamo “benaltristi compulsivi”. Complice la cultura degli anni ‘70 , le canzoni, il sentimento collettivo, i libri. La coscienza infelice era un buon passepartout per ogni tipo di lacerazione, dire no era sempre meglio che dire sì (lo è tuttora per certi versi). Non ci fregava niente della totalità, tanto sarebbe stata comunque cattiva. Poi qualcuno ci metteva anche la vocazione letteraria, quella che Marcuse ha sempre chiamato la “trascendenza dell’arte”, un buon alibi per mantenersi la coscienza pulita e non sporcarsi mai le mani. Poi qualcuno se le è dovute sporcare davvero ma questa è un’altra storia che riguarda le brutte abitudini del nostro paese. Noi invece dovevamo morire duri e puri. Questo ci ha impedito tante cose prime fra tutte la comprensione della realtà, poi le ragioni del compromesso, quello buono che è sempre frutto di dialogo, la pazienza come esercizio di attesa e progettualità, infine la capacità di intervenire e cambiare la realtà stessa. Rivoltare il tavolo era un gesto eroico fatto più per le telecamere interiori che per un vero amore delle proprie posizioni. Ne “l’arte di correre” un libro che la mia generazione dovrebbe leggere e che non parla solo di  corsa o di letteratura lo scrittore Murakami dice che “la barriera tra una sana fiducia in se stessi e un malsano orgoglio è molto sottile”. Se vogliamo continuare ad essere onesti con noi stessi dovremmo tenerlo a mente.

Alessandro Cartoni