JOBS ACT, A CHE PUNTO SIAMO?
A più di un anno dalla sua introduzione, che risultati sta dando il Jobs Act ? Secondo uno studio di ACLI e CISL, il 65% dei giovani è pronto a rinunciare a tutele e diritti in cambio di un posto di lavoro. La generazione dei nati negli anni ’90 ha ormai assimilato il concetto del Lavoro non più come ambito di espressione della propria creatività e di realizzazione personale, ma come un baratto, sgradevole e necessario, tra una persona che ha bisogno di sopravvivere e la società.
E’ difficile sorprendersi, considerato che proprio la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni è tra quelle che più hanno pagato gli effetti della crisi economica: dal 2015, anno di introduzione del Jobs Act, ad oggi, la disoccupazione è effettivamente scesa ai minimi dal 2012. L’aumento netto dei posti di lavoro riguarda però sopratutto la fascia di lavoratori over-50, che tramite gli sgravi sui contributi pensionistici e le “tutele crescenti”, hanno potuto regolarizzare rapporti di lavoro precari o intermittenti.
Più in generale, la situazione che sembra prospettarsi, a un anno dall’introduzione del Jobs Act e dopo la fine del sussidio con cui il governo si accolla i primi tre anni di contributi dei neoassunti, non è incoraggiante. A inizio 2016, sono crollate le assunzioni a tempo indeterminato, che hanno segnato un -34%, rispetto al 2015 e anche al 2014. Si prospetta un ritorno ai primi anni 2000, quando in seguito alla legge Maroni ci fu per diversi anni una diminuzione della disoccupazione, a fronte dell’esplosione di una giungla di contratti precari. Abbassare la qualità dell’occupazione, per aumentare la quantità: oltre all’aumento netto di posti di lavoro, anche la migliore qualità dell’occupazione è concentrata sulla stabilizzazione di over -50.
Con questo, non mi voglio iscrivere ai ranghi di coloro che propongono la guerra tra generazioni, una versione della guerra tra poveri ancora più perniciosa: a essere stabilizzate, accedendo ai nuovi contratti a tutele crescenti, sono perlopiù disoccupati di lunga data o lavoratori anziani che le imprese avevano fin qui tenuto anni e anni appese a contratti precari. E’ assolutamente positivo che l’occupazione, in una fascia critica per il reimpiego dei lavoratori coinvolti, torni a salire.
A dover essere messo in discussione è l’intero approccio scelto fin qui per la riforma: siamo nel periodo con i più bassi tassi di interesse bancari, e i più bassi costi delle materie prime, nella storia recente del mondo. Eppure, tutto quello che riusciamo a ottenere, dopo aver attaccato frontalmente il panorama delle tutele sul lavoro, è una modesta ripresa degli occupati, trainata da un enorme investimento di denaro pubblico a favore delle aziende.
Ci sarà sicuramente chi riterrà positivo un aumento dello 0,4% dell’occupazione giovanile ad agosto, anche se verosimilmente trainato dall’occupazione nel turismo e nei lavori stagionali in agricoltura e ristorazione, e un piccolo aiuto lo potrà dare il nuovo voucher per la formazione e il collocamento che spetterà ai giovani disoccupati: il dato principale è però che il governo si è rassegnato a drogare il mercato del lavoro con incentivi a breve termine (un anno, qualche mese) e con un taglio dei salari, delle tutele e del futuro pensionistico dei lavoratori, giovani e giovani, come testimoniato dallo straripare di voucher e contratti a termine da 1 a 6 mesi.
Il risultato sarà un modesto aumento di una occupazione fragile, instabile e a bassissimo valore aggiunto, senza una formazione specifica e senza reali incentivi a investire in produttività, che è ferma da 20 anni ed è il vero male oscuro di questo Paese: la lezione è che non si cresce con le leggi, e perdipiù con le cattive leggi … ma con gli investimenti, veri, seri, importanti.
Manfredi Mangano