ITALIA, LIBERTA’ DI STAMPA E RANKING AL GUSTO ‘BUFALA’

Ogni mese di aprile, puntuale come una grandinata il giorno di Pasquetta o l’arrivo in ufficio del diretto superiore mentre si ascolta su WahtsApp una nota vocale ‘hard’ di un amico, è arrivato il “World Press Freedom Index”. Che non è una cover di Bob Marley, ma semplicemente la graduatoria dell’associazione non governativa RSF (Reporters sans frontierès) che classifica i paesi in tema di libertà di stampa. L’Italia si è presa ancora una volta una legnata in piena mandibola: 77° posto, roba che nemmeno nel 1926 all’indomani delle Leggi Fascistissime. Paesi come El Salvador e Burkina Faso hanno messo la freccia e ci hanno sorpassato e in Europa chiudiamo comicamente la fila. Così, uno scroscio di sdegno ha invaso tutto e tutti, dal Transatlantico di Montecitorio fino alla bacheca Facebook dell’ultimo consigliere comunale della Barbagia sarda. Si è gridato all’apocalisse, all’infamia e alla Pravda, editori e giornalisti sono stati spediti al pubblico patibolo e alle loro madri hanno le orecchie per giorni. Ci è mancata soltanto una testa di cavallo nel letto della Gabbanelli o la macchina rigata al Gramellini di turno. Un festival del disgusto, in soldoni, con l’intera classe politica ad azzuffarsi, gli editorialisti a smarcarsi e i cittadini lì, seduti sul water, a leggere la carta igienica e a utilizzare il taglio basso dell’inserto “Economia” per le parti intime in segno di sfregio.

Smussati gli strali d’odio però, ho riletto (e non sono stato l’unico) questo fantomatico “ranking” con spiegazione a fronte e di cose che non quadravano ce n’erano a iosa. In Moldavia, paese che ci è appena davanti, se scrivi qualcosa di anti-russo rischi di fare la fine di un gattino sul Grande Raccordo Anulare. A El Salvador se rivolgi una domanda alla persona sbagliata vieni ricamato sulla carne viva con lo spelucchino. In Nicaragua il pur democratico presidente Sandinista Daniel Ortega fa taroccare ai giornalisti anche le previsioni del tempo per non far deprimere i turisti. E nemmeno mia nonna, per la quale Burkina Faso potrebbe essere tranquillamente una borgata del maceratese, crederebbe all’exploit di “penne libere” nel paese situato nel cuore del continente nero, teatro di quattro colpi di Stato dal gennaio 2015 prima di arrivare ad elezioni pseudo-libere. Assodato ciò, qual è l’origine di tanto sfacelo nell’informazione italiana?

Secondo il report le cause principali sono due. La prima riguarda l’elevato numero di giornalisti sotto scorta, che secondo RSF (che qui cita Repubblica, ndr), sarebbero tra i 30 e i 50. Un po’ come dire: sei malato perché hai la febbre tra 37 e 41. I cronisti sotto protezione o sono 30 o sono 50: di certo si sa solo che non sono in aumento. La seconda macchia invece menziona il processo che vede coinvolti i giornalisti Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi per aver rivelato gli scandali della Chiesa cattolica. Vatileaks, per capirci: il problema è che a processarli è la Città del Vaticano e non lo Stato italiano, quindi macchia un corno.

Ora: sono iscritto all’albo dei giornalisti da tredici anni, e quasi da otto a quello dei professionisti. Quando si tocca con mano il tanto agognato tesserino si ha subito la sensazione di entrare in un club tutt’altro che esclusivo: la lista dei malanni del giornalismo italiano è più lunga di quella di un novantenne ricoverato in un nosocomio di lungodegenza. Gli editori puri, cioè imprenditori che fanno attività solo in questo settore e che “campano” d’editoria, da noi non ci sono quasi mai stati. Sono tutti impuri, in alcuni casi impurissimi (Silvio, do you remember legge Mammì?). Oppure sono dei potentati (vedi Confindustria con “IlSole24ore”) o come nel caso della Rai l’editore è direttamente lo Stato (ergo la politica). E’ un minestrone insipido il giornalismo nostrano, perché il sale dell’informazione (il pluralismo) non c’è, e gli altri ingredienti sono tutti stoppacciosi e poco appetitosi (clientelismo, autoreferenzialità, sensazionalismo).

Per avere un termometro della faccenda, bastava presenziare al Festival del Giornalismo di Perugia di un mese fa, dove ad ogni panel o workshop le campane dell’informazione del Belpaese hanno suonato a morto per la crisi. I talk show televisivi sono ring per galline da combattimento, i giornali sono scritti da collaboratori sbarbati pagati con i soldi del Monopoli, piazzati abusivamente nei sottoscala delle redazioni nella migliore delle ipotesi, oppure a casa con tutto l’armamentario (pc, telefono, telecamera, macchina fotografica) a loro spese. Il tutto mentre i loro direttori o caporedattori sproloquiano dai sofà televisivi o sparano omelie e vaticini chilometrici su Facebook. I commenti si mangiano le notizie, e trovare un’inchiesta o un reportage degni di nota è probabile come trovare un clochard a fare spesa da Eataly: si dev’essere faziosi e bisogna schierarsi, altrimenti non si esiste. I Rondolino e i Sallusti sono la cifra: giornalisti ultras, che però il sistema considera bomber. Col risultato che l’autorevolezza di tg e giornali tracolla, e lettori e telespettatori vanno a informarsi come meglio credono nel tormentato oceano di internet, dove si annidano bufale grosse come palle mediche. Potremmo star qui fino a Ferragosto ad elencare le storture del carrozzone mediatico, ma su una cosa non possiamo prenderci in giro: nessun “corsivista” preferirebbe scrivere su un giornale salvadoregno piuttosto che qui, così come nessun lettore si sentirebbe informato in modo più completo e plurale a Banfora (Burkina) piuttosto che a Vibo Valentia o San Donà di Piave.

Certo, non c’è percezione di libertà, tanto che lo scorso tre maggio la giornata dedicata alla libertà di stampa è passata sotto silenzio come passerebbe quella per la tutela del ravanello. Però su questo report dobbiamo toglierci le fette di Rovagnati dagli occhi. RSF stila questa classifica sulla base di criteri quantitativi (giornalisti arrestati, uccisi, licenziati, etc), abbinati a standard più qualitativi calcolati con questionari simili a quelli propinati al popolo vacanziero dei villaggi Valtur negli anni ’90. Con punteggi da 1 a 10, rispondono a domande (su pluralismo,autocensura, legislatura e via dicendo) associazioni, gruppi o singoli reporter (che spesso non ne sanno una mazza) diversi da continente a continente e senza una metodologia e un “metro” uguali. Ne viene fuori un quadro pasticciato e raffazzonato, che però viene scambiato per l’oracolo di Delfi e strumentalizzato da politici e cittadini a man bassa, senza che nessuno si faccia venire il dubbio del substrato cazzaro che il rapporto nasconde. Ad aprile prossimo però saremo di nuovo qui, tra urla belluine e bocche digrignate, a gridare allo schifo giornalistico. Mi ci gioco una crociera. Magari a El Salvador, con tanto di tabloid “liberi” al mattino a colazione.

Valerio Mingarelli