UMBERTO ECO E IL DESIDERIO DI INFINITO – di Alessandro Moscè

Umberto Eco (1932-2016) era un bricoleur della cultura, un alchimista erudito, un sapiente umorista. Narratore e semiologo di valore mondiale, per prepararsi alla morte offrì il suo “piano” (era il 1997) rivolgendosi ad un discepolo ironicamente: “Cerca soltanto di pensare che il mondo è pieno di coglioni, che coglioni sono quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?” Lo avevamo intervistato qualche mese fa sull’ultima polemica che suscitò, quando prese di mira i social network, dichiarando che danno voce ad una legione di imbecilli. Umberto Eco aveva stigmatizzato che il mare magnum dei portali pubblici, spesso degeneranti, senza controllo, tradisce il diritto di parola: chiunque può essere posto sullo stesso piano di un Premio Nobel. Fu una dichiarazione scomoda ma sensata. Sulla televisione (non va dimenticato che vinse un concorso in Rai nel 1954 al pari di Furio Colombo e Gianni Vattimo) sottolineò l’inutile messa in scena di personaggi comuni, che non hanno nulla da dire. Il tema del falso lo appassionava spesso. “Non lo nego, ma mio padre mi ha abituato a non prendere le notizie per oro colato. I giornali mentono, gli storici mentono, la televisione mente e anche la scienza mente” dice uno dei protagonisti del suo ultimo romanzo, “Numero zero” (Bompiani 2015). La vicenda si svolge da aprile a giugno del 1992, subito dopo lo scandalo di Tangentopoli, e attraversa l’Italia nel passaggio cruciale tra la prima e la seconda Repubblica. Ma c’è un aspetto poco sondato che lo inquietava più di ogni altro. Anche un uomo di eccezionale capacità come Umberto Eco non sapeva spiegare razionalmente o sensorialmente il segreto dell’esistenza. Lo vedeva racchiuso nel volo di un merlo, o in un cassonetto, come ha immaginato Alessandro Baricco su “Repubblica”.

Lo sguardo di Umberto Eco sul mondo era scettico, relativista. Durante gli studi universitari su Tommaso d’Aquino smise di credere in Dio e lasciò la Chiesa cattolica. In una nota commentò: “Si può dire che lui, Tommaso d’Aquino, mi abbia miracolosamente curato dalla fede”. Inseguiva qualcosa che non sapeva definire: il desiderio di infinito che lo costringeva, suo malgrado, a fare i conti con tutti i limiti umani. Qualche anno fa Vittorio Messori, per una sua inchiesta sul Cristianesimo, andò a trovarlo e passò con Umberto Eco un pomeriggio milanese. La scommessa per Dio o contro Dio nasce più dal vissuto esistenziale che dall’argomentare teorico. Per quali motivi, e con tanto fervore, il giovane Umberto Eco, decise di ritirare la sua speranza nel Cristo? Annota Messori: “Mi parve, con tutto il rispetto, che gli argomenti della sua risposta non sfuggissero al sospetto di essere stati elaborati post factum, per razionalizzare un ripudio venuto dal cuore e dalla vita più che dalla ragione. Glielo dissi. Fu pronto a replicare, con sincerità: «Le concedo volentieri che, qui, qualunque prova o ragionamento serve solo a convincerci di ciò di cui già siamo convinti. È vero: l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia. Ma non basta neppure quello biografico». La morte, gli ricordai, è la scommessa per eccellenza, aperta a molti esiti possibili”. Quel pomeriggio Messori ed Eco continuarono a dialogare a lungo su Gesù Cristo.