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LINGUAGGIO TRIVIALE IN PARLAMENTO – di Alessandro Moscè

“Porco, maiale, schifoso”. Sono solo alcuni dei tanti appellativi che vanno di moda in Parlamento tra deputati e senatori della Repubblica. La legge dell’insulto prevale ferocemente da destra a sinistra degli scranni, spesso coinvolgendo, indirettamente, anche i ministri. La politica è ridotta ad un linguaggio poverissimo, di contrapposizione vuota in favore di uno scontro tutto frontale. La stessa cosa, naturalmente, avviene nei tweet e nei post di facebook, dove gli animi si surriscaldano e dove le persone si sentono più spronate a lanciare l’offesa personale perché nascoste dietro un video e protette dall’evitamento del faccia a faccia. Il linguaggio, nell’era dei social network, ha perso la sua “civiltà”. Il grande passaggio epocale ha prodotto un balbettio nella lingua, un cambio di marcia delle parole, nonché del loro rapporto con la realtà. In breve le parole vengono a noi come una valanga e l’imbarbarimento regna sovrano. E’ davvero sconfortante assistere al lancio di crisantemi in un’aula parlamentare, dove di recente non sono mancate le baruffe con tanto di schiaffi e spintoni. Il tempo passa e con esso sembra che se ne vada anche il buonsenso che ha favorito la buona educazione. A che serviva, si chiede in un bell’articolo don Chino Pezzoli, che si occupa di una comunità terapeutica? A fissare i limiti del linguaggio e dei comportamenti, a non compromettere la dignità propria e altrui, scrive. “Il web”, afferma don Chino su www.promozioneumana.it,  “riceve e diffonde un insieme di parolacce e termini scurrili con una certa frequenza da assicurare un impianto di oscenità mentale nei piccoli e nei grandi. Parolacce, insulti, volgarità resi più mordenti da immagini e foto di chi intende personalizzare maggiormente la sua comunicazione”. Ma torniamo alla politica. E’ questa la scena madre che vogliamo? E’ legittimo vilipendere? L’interscambio esige una costante sensibilità da parte di chi parla e di chi ascolta. Una sensibilità che non dovrebbe permettere l’offesa, la calunnia, la riduzione dell’altro ad un oggetto da usare. La nostra è un’era digitale che ha sdoganato l’insulto, dunque. Per arrivare dove? E’ ancora utile discutere di contenuti in un contesto dove la liquidità delle parole non ha più un peso specifico, dove un’analisi è già frantumata dalla forma? Il fenomeno globale non ammette una regola di comportamento. E in Parlamento il tutti contro tutti è una ricorrenza abituale, giornaliera. Anche dalle scuole giungono segnali d’allarme: influenzati da tivù e media, i giovani parlano sempre peggio. Ancora una domanda: è davvero liberatorio e moderno tutto questo? Chiediamolo ai nostri parlamentari, innanzitutto. Poi coinvolgiamo la rete. L’esempio peggiore viene da chi dovrebbe rappresentare, tutelare la comunità e fare le leggi. Per la gente comune, dotata di garbo, non è di certo un bel vedere e un bel sentire.

Alessandro Moscè