L’AQUILA, PER NON DIMENTICARE – di Marco Antonini

Uno striscione portato da alcuni familiari delle vittime con lo slogan “il fatto non sussiste ma uccide” in riferimento alla sentenza della Corte d’Appello che ha assolto sei dei sette componenti della Commissione Grandi rischi. Poi altri che chiedono verità e giustizia dietro migliaia di persone che in silenzio sfilano con le fiaccole in mano. Così nel giorno di Pasqua di Resurrezione che coincide con il sesto anniversario del tragico sisma dell’Aquila, si è snodato il corteo per non dimenticare le 309 vittime che alle 3.32 della notte tra il 5 e il 6 aprile del 2009 sono rimaste uccise da una scossa che seminò distruzione causando 1600 feriti e 70 mila sfollati. In testa al corteo anche familiari di alcuni degli studenti stranieri che persero la vita la notte del terremoto: alcuni genitori di giovani scomparsi sei anni fa indossano una casacca con la scritta “il fatto no sussiste” con la data della sentenza della Corte e del terremoto.

IL REPORTAGE DI MARCO ANTONINI – PASQUA 2012. IL TEMPO SI E’ FERMATO.

Non sembra Pasqua di Risurrezione a l’Aquila. Il capoluogo abruzzese, a tre anni di distanza dalla feroce ferita del terremoto, non festeggia l’evento cristiano della gioia e della speranza. Tempo climatico discreto, sereno, a momenti nuvoloso. Le cime appenniniche del Gran Sasso d’Italia sovrastano l’area sismica e in serata, in quota, è attesa la neve. Con estrema facilità raggiungo in auto la Cattedrale supplente: la meravigliosa Basilica secolare di Santa Maria di Collemaggio. In pochi secondi trovo un comodo parcheggio davanti ad una palazzina distrutta. Tutto è deserto intorno anche se sono quasi le 11 del mattino. Non si sentono campane a distesa che invitano alla festa. Eppure dopo l’agonia del Venerdì Santo venivano slegate proprio per la Pasqua. La Basilica, all’esterno, offre una visione artistica unica con la sua facciata del tredicesimo secolo. E’ appena terminato il Pontificale dell’Arcivescovo Metropolita Giuseppe Molinari. I fedeli escono dal portone di sinistra. Le altre porte, compresa quella Santa della “Perdonanza” sono sigillate. Tanti volti seri e chiusi in se stessi. Pochi sorrisi, poca voglia di fare chiacchiere da piazza come spesso accade dopo le funzioni religiose in tante città normali. Non c’è niente da festeggiare e si vede. Mi convinco ad entrare. Mi si apre davanti uno spettacolo apocalittico che deprime. Pareti spezzate, le colonne della navata centrale tutte imbrigliate, la cupola crollata e sostituita provvisoriamente da una copertura che permette di vedere il cielo. Forse, la speranza non muore mai. E’ Pasqua anche a l’Aquila. In molti sostano davanti all’urna di Pietro Angeleri, eremita del monte Murrone, sopra Sulmona, che, in questa Basilica, venne eletto Papa nel 1294 con il nome di Celestino V. Tutta la città è a Lui devota. Oggi più che mai. Nella prima panca di destra c’è una signora in raccoglimento. Mi avvicino per avere alcune spiegazioni sul più importante monumento religioso de l’Aquila. Davanti a noi la base delle due enormi colonne crollate. Qui la spontaneità supera il giornalismo. L’aquilana nell’animo comincia a raccontare una storia che la televisione non sempre riesce a cogliere, presa da numeri, bilanci di donazioni e polemiche politiche post-sisma. “Noi aquilani non c’eravamo mai accorti di quanto la città fosse meravigliosa. Purtroppo, solo ora che è vuota, deserta, triste, ci accorgiamo di ciò che avevamo. Le chiese (un centinaio) con Collemaggio, il Duomo e San Bernardino in primis, sono rimaste ferite al cuore e con esse, il patrimonio storico, artistico e culturale della città e noi. Il centro storico non esiste più. E poi i giovani. Una città con migliaia di studenti universitari che sono la vita de l’Aquila ora si guardano intorno.” Le lacrime scendono nel volto e parlano più delle tante parole che appunto nel taccuino. Alcuni fedeli si avvicinano. “Qui non è ripartito nulla della ricostruzione vera e propria del Centro Storico, serviranno tanti, troppi, anni per restaurare tutto e tanti soldi. Io non so se avrò la fortuna di vivere a lungo per rivedere la rinascita. Magari Dio me lo permettesse.” Diversi sentimenti prevalgono. Rabbia con la ricostruzione pesante che va a rilento. Contentezza per essere vivi. Tristezza con la violenza del terremoto che non si dimentica. “Ogni giorno facciamo i conti con quella notte. Prego con tutto me stesso che a l’Aquila arrivi la Mattina di Pasqua”, sussurra un anziano collaboratore della Basilica. Mi addentro nel centro cittadino. Qui per secoli si è svolta la vita della città. Incontri fatti di sguardi, passeggiate mano nella mano, processioni di un popolo con la statua del patrono, aperitivi o caffè, mostre, corsette domenicali, conferenze stampe… Come può chiamarsi città ciò che oggi è chiuso, delimitato dappertutto con transenne, cartelli, sostegni e ringhiere? Il Centro Storico non c’è più. Con esso se ne sono andati gli aquilani. Una camminata lunga un’oretta mi aspetta. Incontro trenta o quaranta persone in tutto. Anche il più banale rumore, come un sasso che cade, rimbomba e ruba la scena. C’è vuoto e silenzio. Quasi imbarazzante. Niente vita nel cuore de l’Aquila. Tutto sembra fermato a quel 6 aprile 2009. Tanti negozi semi distrutti non sono stati più riaperti, nemmeno per portare in salvo alcuni ricordi personali. Le vetrine sono ancora confuse e devastate dalla scossa, tutto è rimasto com’era quel giorno. Avvicinandomi verso la Piazza centrale scopro quante parti del centro sono state denominate “Zona Rossa”. Non posso entrare. Provo ad allungare lo sguardo. Una distesa di case puntellate e niente di più. I soldati son li a sorvegliare che nessun sciacallo entri a derubare distruzione e disperazione. Niente, o quasi, si è salvato. Non ci sono bambini che sorridono o genitori che avvertono che il pranzo è pronto. Nemmeno squilli di cellulare… Davanti ad una ennesima chiusura di una via per inagibilità, in una rete metallica, sono state attaccate tante chiavi di case annullate. C’è un cartello: “Queste sono le chiavi delle nostre case appese alle transenne come le nostre speranze”. E ancora crepe e squarci che ti fanno intravedere dentro l’abitazione. Fuori la città si prova ad andare avanti. In molti si sono radunati nei moderni centri commerciali di periferia: “Purtroppo, oggi, è quello il nuovo fulcro della città.” Mons. Giovanni D’Ercole, vescovo Ausiliare, scrive in un suo messaggio alla Diocesi: “Si percepiscono l’emergenza delle relazioni e l’urgenza educativa. Il terremoto ha minato i rapporti tra le persone. Con ragione si può dire che solo se ci sarà ricostruzione umana ci sarà quella materiale.” Prosegue l’Arcivescovo Molinari: “Abbiamo conosciuto dolore, paura, lutto. Abbiamo sperato e non cessiamo di sperare. Anche se spesso è difficile. E’ difficile sperare quando, dopo la stagione della solidarietà e dell’attesa fiduciosa, ci siamo scontrati con le promesse non mantenute, con le allucinanti resistenze della burocrazia, con le meschinità della politica e gli egoismi di tante persone. Eppure bisogna continuare a lottare e a sperare.” Nella primissima fase dell’emergenza, dal Comune di Fabriano sono scesi quattro tecnici muniti di auto per gli spostamenti e di un camper adibito ad alloggio ed ufficio per non pesare sulla già precaria condizione della zona colpita. Dopo un primo incarico di sopralluogo nei dintorni dell’Ospedale Civico de l’Aquila, i lavori dei geometri fabrianesi si sono spostati a Pizzoli e Arischia con il compito di verificare l’inagibilità delle strutture. In una seconda fase, invece, i tecnici si sono spostati a Barisciano per gestire l’emergenza dal punto di vista cartografico. I nostri hanno messo a disposizione la loro esperienza maturata con il terremoto del 1997 tra Marche e Umbria e in Molise nel 2002. Da Fabriano sono partiti anche diversi nuclei abitativi che sono stati impiegati nelle strutture sportive e come farmacie. Nulla, o quasi, è cambiato da quei primi mesi di emergenza.

Alfredo Di Varano, sindaco di Isola, comune di quasi 5 mila abitanti, è chiaro: “”Per le nostre terre ricostruzione significa tornare alla vita, soprattutto per la città dell’Aquila, con la quale il mio comune è separato solo dal Gran Sasso. L’aquila è morta. Ora ha bisogno di uno scatto che porti alla rinascita vera della città. Ricostruzione significa anche ridare un pò di linfa all’economia dei nostri paesi. La speranza è che dopo un avvio lento, possa aversi, anche per la spinta del nuovo governo, quell’accelerazione che tutti paiono auspicare. E soprattutto che alle parole, seguano fatti concreti.” Intanto un sostegno non indifferente potrebbe arrivare dal turismo, oggi praticamente inesistente. Organizzare quaggiù gite e pellegrinaggi potrebbe diventare occasione di arricchimento umano e materiale per tutti. E a smuovere le coscienze e a non far sentire una popolazione abbandonata. A poca distanza sorgono alcuni tra i borghi più belli d’Italia: Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Castel del Monte, Pietracamela, Isola del Gran Sasso protetta dal Santuario di San Gabriele dell’Addolorata, Tossicia. Visitare per credere! Gli aquilani aspettano visitatori sorridenti e cordiali che donino, anche solo per mezza giornata, un sorrido, un saluto, uno sguardo affettuoso. La vita riparte anche così. E’ ormai l’ora di pranzo. Mi avvicino al Duomo dove alcune associazioni hanno tappezzato le infrastrutture con stoffe colorate lavorate ai ferri o con l’uncinetto per ripartire tutti insieme al motto “Mettiamoci una pezza”. Un’altra iniziativa per ridare colore e vita ad una città in cui, da tre anni, regna un solo colore: il grigio. C’è un ambulante che vende formaggi tipi abruzzesi. Mentre mi avvicino, l’unico commerciante aperto la mattina pasquale in mezzo al niente, mi esclama: “Benvenuti”. L’Aquila rinasce dalle sue macerie.

Marco Antonini