LOTTA ALLA MAFIA, IL GENERALE PELLEGRINI: “NOI, UOMINI DI FALCONE”

Nuova importante iniziativa, organizzata dall’Associazione Giuridica Fabrianese “Carlo Galli” e dall’Associazione “Le agende rosse” Gruppo “C. Alberto Dalla Chiesa e E. Setti Carraro” di Ancona e provincia, che si è tenuta giovedì 18 ottobre presso la Sala Ubaldi di Fabriano. Un incontro dal tema “Legalità e lotta alla Mafia” alla presenza del Generale dell’Arma dei Carabinieri Angiolo Pellegrini, Comandante della sezione anticrimine di Palermo dal 1981 al 1985. Il Generale Pellegrini, autore del libro “Noi, uomini di Falcone”, scritto con Francesco Condoluci, ha gentilmente accettato di rispondere alle nostre domande.

Generale Pellegrini, dal suo arrivo a Palermo nel 1981 per assumere il comando sella sezione Anticrimine, ha combattuto in prima linea la seconda guerra di mafia che ha devastato e bagnato di sangue la Sicilia, con una ferocia senza precedenti. Ripensando a quei primi anni, quale ricordo e quale momento in particolare le ritornano più spesso in mente?

In realtà mi tornano in mente i 1800 giorni in cui sono rimasto a Palermo, perché ogni giorno è stato contraddistinto da qualcosa di particolare. Molti giorni mi hanno lasciato addolorato, la morte di tante persone che combattevano la mafia, responsabili solamente di fare il loro dovere e di combattere la mafia, persone importanti come Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giudice Chinnici ma anche carabinieri e giovani poliziotti che non facevano altro che fare il proprio dovere. Altri giorni mi sono rimasti nei ricordi per le soddisfazioni che abbiamo avuto perché, come dico anche nel mio libro, noi abbiamo vinto tante battaglie contro la mafia, la più grossa battaglia vinta con il Maxiprocesso, poi purtroppo abbiamo perso la guerra. E quindi anche quei giorni in cui siamo stati soddisfatti di aver fatto fino in fondo questo dovere successivamente sono stati offuscati dal fatto che qualcuno ci ha impedito di vincere questa guerra.

I suoi uomini lo avevano ribattezzato Billy the Kid. Durante il suo incarico ha provato mai un senso di impotenza e di umano scoramento di fronte a questa guerra feroce, combattuta contro un nemico così forte e radicato quale Cosa Nostra?

Sono stato fortunato perchè i miei collaboratori non sono stati nessuno ucciso o denunciato, ho avuto una sezione, una squadra che anche adesso rimane collegata con me e anche coloro che ne facevano parte tra di loro. Certo di fronte ad alcuni omicidi, quando ho visto Ninni Cassarà sulla scala con vicino la moglie, con cui abbiamo lavorato a tempo pieno per il primo rapporto che è stato alla base del Maxiprocesso ovviamente scoramento mi è preso. Quando ho visto Mario Da Leo, un giovane ufficiale brillantissimo assassinato sotto l’abitazione della propria fidanzata insieme a due carabinieri che gli facevano da scorta, scoramento mi è preso. Ma ho dovuto reagire alla paura di quei giorni, soprattutto perché di fronte ai miei uomini non potevo far vedere né di avere paura né di avere dei sentimenti chiari che mi impedissero di arrivare fino in fondo.

Quale motivazione l’ha spinta a scrivere il libro “Noi, uomini di Falcone”?

La principale è che i giovani non conoscono la storia d’Italia, perché andando i primi giorni nelle scuole, prima della scrittura del libro invitato per parlare di legalità, mi sono accorto e gli insegnanti mi hanno confermato che la storia della Repubblica Italiana i ragazzi la conoscono molto poco. Allora ho ritenuto opportuno scrivere questo libro, che forse dovrebbe essere preso come libro di testo nelle scuole, perché parla dei cinque anni della storia d’Italia in cui la mafia si ritenne più forte e mise a rischio la stessa esistenza della Repubblica. Poi per raccontare tanti episodi che non si conoscono, che può conoscere solamente chi ha vissuto in prima persona questi fatti e situazioni, per raccontare anche gli stati d’animo e chi ha tradito le Istituzioni, facendo anche i nomi di alcuni traditori, perché è un libro che non ha peli sulla lingua, che dice la verità. Prova ne è che, dopo tre anni e mezzo che è uscito, nessuno ha avuto risentimenti nei miei confronti.

Il sottotitolo del libro lancia un importante spunto di riflessione citando testualmente “La guerra che ci impedirono di vincere”. A distanza di anni crede che sia andata veramente così, vi sentivate servitori di uno Stato che vi voleva in qualche modo sconfitti?

Sì, ho avuto la conferma in questi anni, ripensando, ripercorrendo quei momenti che lo Stato ci ha tradito. Non lo Stato come ente ma alcuni appartenenti alle Istituzioni dello Stato, alcuni ci hanno tradito ed altri non sono stati capaci di ribellarsi a questi tradimenti.

A livello personale il Generale Pellegrini ha pagato in qualche modo il suo coinvolgimento nella lotta contro la mafia?

Ritengo di averlo pagato in qualche modo, se leggete il primo capitolo del libro che si intitola “L’inizio della fine” nel momento in cui, vicino ai magistrati del Pool Antimafia, abbiamo attaccato la classe politica e imprenditoriale che faceva anche parte della criminalità organizzata siamo stati penalizzati. Successivamente anche quando è stato attaccato Giovanni Falcone, quando ha dovuto percorrere la sua via crucis, nei momenti in cui eravamo riusciti a realizzare quel Maxiprocesso che vedeva alla sbarra una mafia, che solo cinque anni prima alcuni ne negavano l’esistenza, siamo stati penalizzati. Non ne faccio una cosa personale, lascio alle coscienze dei miei superiori, che sicuramente avranno letto questo libro, pensare se veramente io sono stato penalizzato da quello che ho fatto, non solo a Palermo ma anche a Reggio Calabria, oppure mi è stato dato quello che meritavo. Io sono contento lo stesso, sono assolutamente sereno, rimango un uomo libero perché la più grande soddisfazione per un uomo è essere uomini liberi e quando uno è un uomo libero può dire quello che vuole.

Ripensando a Giovanni Falcone ed anche al rapporto di amicizia che vi legava, quale ricordo e quale aspetto della sua vita umana e professionale le resteranno come un importante insegnamento e monito per il futuro?

Ho imparato una cosa soprattutto, l’assoluta onestà intellettuale. Falcone era il giudice istruttore che interrogava, esaminava le prove e alla fine aveva il coraggio di decidere se era il caso di rinviare a giudizio o di prosciogliere. Questa è una cosa importantissima che ho sempre tenuto presente, come cito nel libro, prima scrivevo i rapporti giudiziari e poi scrivevo le rubriche inserendo i nominativi delle persone che denunciavo, in base alle prove che venivano raccolte. Se c’era qualcuno da prosciogliere, da tirare fuori e da non denunciare ho sempre avuto il coraggio. Questo è stato un grande insegnamento di Falcone, aveva il coraggio, gliel’hanno fatta pagare, qualcuno si è risentito nel momento in cui Falcone rinviò a giudizio per calunnia uno pseudo-collaboratore di giustizia, prosciogliendo alcuni politici che erano stati falsamente accusati da questo pseudo-collaboratore, qualche politico si ribellò contro lui e disse che lo aveva fatto non perché aveva fatto giustizia ma solamente perchè aveva una spiegazione politica.

Gigliola Marinelli