I TRE FASCISMI DI OGGI E LA PRATICA ANTIFASCISTA

di Nico Bazzoli

Negli ultimi tempi si sente sempre più spesso parlare di fascismo. Tra critiche ed esaltazioni, dibattiti e scomparsa della memoria viva sembra quasi che il fascismo stia vivendo un nuovo periodo di legittimazione. Non tanto del concetto in sé, bensì delle figure politiche e intellettuali che lo hanno assunto, (ri)attualizzato e promulgato. Pochi, in realtà, anche tra i suoi più convinti sostenitori, sanno cosa sia. Secondo il vocabolario più usato nel XXI secolo si tratta di una “dottrina e prassi politica fondata sulla violenta e indiscriminata affermazione di motivi nazionalistici e imperialistici, sulla presunta loro adeguatezza a superare e armonizzare i conflitti economici, politici e sociali, e sull’imposizione del principio gerarchico a tutti i livelli della vita nazionale attraverso la sopraffazione”. In altre parole, un po’ più sociologiche, consiste nella creazione di diritti differenziali attraverso la coercizione, riconducendo la struttura sociale a un principio verticale nel quale scompare l’uguaglianza formale tra gli individui.

Quanto di tutto ciò conosca un riscontro nella società attuale è una questione che in molti si pongono. Se dal punto di vista teorico lo Stato democratico si pone in antitesi a tale forma di organizzazione, dal punto di vista empirico sono sempre più numerosi i casi che segnalano tentativi di riproduzione di questo modello.

Quali sono, allora, i fascismi di oggi? Ne individuerei per lo meno tre, distinti ma al tempo stesso interrelati: uno di facciata, uno “culturale” e uno istituzionale.

Il fascismo di facciata è quello dei nostalgici, del “Mussolini ha fatto anche cose buone”, del macchiettistico operato di Forza Nuova e CasaPound, residuale e da ricovero. Un fascismo che se non fosse condito da seri atti di violenza e dalla commistione con organizzazioni poco limpide farebbe quasi sorridere.

Il fascismo “culturale” è quello delle chiacchiere da bar, che circola tra la gente comune, del “non sono razzista ma…”, del Salvini di turno. Questa ne è forse la versione più preoccupante, per potenziale e diffusione, che tende a normalizzare atti di discriminazione, a protrarre l’idea che non tutti meritino gli stessi diritti e ad alimentare l’odio e la paura verso l’altro. Traini e l’attentato di Macerata sono solo alcuni dei suoi prodotti.

Quando il fascismo “culturale” assume una tale portata da penetrare nel discorso pubblico e nell’operato dei vari livelli governativi assistiamo al fascismo istituzionale. Ne sono espressione l’impunità verso i reati di propaganda fascista, l’incertezza della pena quando i criminali sono i preposti all’ordine pubblico, il mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza in base alla provenienza geografica. Insomma, quando lo Stato svolge la sua funzione di regolazione considerando il corpo sociale in modo differenziale.

In questa situazione essere antifascisti significa in primo luogo credere che la società debba essere organizzata in modo sempre più orizzontale e sempre meno verticale, favorendo l’inclusione dei subalterni e combattendo la costruzione degli stereotipi e delle discriminazioni. Questo senza scordarsi che ogni pratica culturale non è fatta solo di discorsi ma anche di atti materiali, spesso di rottura con l’esistente, specie quando quest’ultimo risulta impregnato dalle manifestazioni dei tre fascismi precedentemente menzionati. Essere antifascisti oggi è un atto di resistenza a una cultura dominante che ci riporta verso ieri, indietro nel tempo, in una retrotopia baumiana che presenta più di un’analogia con il ventennio più buio della storia del nostro paese. Così scriveva Gramsci nel 1921: “Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano.” Per combattere qualcosa, d’altronde, bisogna in primo luogo riconoscerla.