AMARCORD ELETTORALE ‘LIGHT’/4: L’AZZURRA LIBERTA’, IL CELODURISMO E IL ‘VINAVIL’ ULIVISTA

Anni ’90. Anzi, per la precisione 1992. Beverly Hills 90210 tiene incollata alla tv la generazione X: le avventure di Brandon, Dylan e Kelly rintuzzano un novello sogno americano. A cantarne male, di quel sogno, c’è un biondo tormentato, talentuoso e con spiccata predisposizione all’autodistruzione: si chiama Kurt Cobain e con un album (Nevermind) marchia a fuoco il decennio. Poi toglie il disturbo ed entra nell’iperuranio. In Italia i pomeriggi scorrono ad alto testosterone con le ragazze di “Non è la Rai” e le sue frangette. Fiorello gira l’Italia col Karaoke, Di Pietro la gira con le manette e il sistema va giù. Il gigante latteo d’argilla, la DC, si spappola a mo’ di frollino nel latte. Il PSI si squaglia come una Viennetta messa in forno: le monetine lanciate a Craxi sotto l’edera dell’hotel Raphael tengono a battesimo il funerale del Garofano. Se le carriere dei nipotini di Treves e Turati vengono falciate, si salvano (ma solo in corner e non tutte) quelle degli eredi di Gramsci e Togliatti. Nel paese, ribaltato a mo’ di calzino, nasce una nuova classe politica. Che si rivelerà tutto fuorché migliore di quella vecchia.

27-28 marzo 1994

“L’Italia è il paese che amo”. Comincia con un video di 9 minuti e 25 secondi il nuovo corso. Un uomo in blu con cravatta a pallini impercettibili e sorrisone a 32 denti parla in un’atmosfera di luci seppiate. Dietro ha una libreria con volumi di varia taglia. Davanti, una scrivania sulla quale poggia un tagliacarte da film noir, come se dovesse mandare al creatore qualcuno. Demagogo provetto, cordiale al limite dello stucchevole, iper-libertino e guascone, Berlusconi è già noto al grande pubblico: è il proprietario delle reti Fininvest e col Drive In e Bim Bum Bam negli anni ’80 ha ampliato il ventaglio delle sintassi televisive. Inoltre, da presidente del Milan, in quel 1994 si appresta a mettere le mani sulla terza Coppa dei Campioni. Già nel novembre dell’anno prima aveva lanciato un indizio, sulla sua imminente discesa in acqua nel catino da ripopolare della politica italiana: per la fascia tricolore a Roma aveva sponsorizzato Fini (discendente della fiamma post-littoria) nella tenzone con Rutelli. Ma come, la finanza se la fa coi missini? – si stracciarono le vesti in molti.  Si arriva, quindi, all’audiovisivo della “discesa in campo”: il danaroso rodomonte di Arcore si aspetta che i tg lo trasmettano integralmente. Garimberti, all’epoca direttore del Tg2, tenta di spiegargli che il tg dura mezzora massimo, proprio a voler allungare il brodo. Lui non ci sta, e attacca il piagnisteo in base al quale il vero servizio pubblico sono le reti sue. Che con Emilio fede, il video lo trasmetteranno tutto e in loop. Se Bossi e la Lega erano la vera novità delle elezioni del ’92, Forza Italia è la new entry del ’94, di certo più fighetta ma non meno sguaiata del Carroccio. Nella seconda repubblica da inaugurare c’è un favorito che già dà fiato alle trombe: è il Pds, così certo della vittoria che a Palazzo Chigi Occhetto già impartisce direttive sugli arredamenti ai primi di febbraio. Nel mezzo del ponte tibetano che collega la Quercia al bossiano Sole delle alpi c’è un soporifero sardo, apparentemente imbambolato ma sagace e guardingo: si chiama Mariotto Segni. Tre anni prima ebbe a turlupinare sua maestà Craxi con un referendum sulle preferenze: per lui una era pure troppa. Ed era stato lui a spianare la strada alla legge elettorale nuova di pacca nata l’anno prima, griffata dal compassatissimo (già allora) Sergio Mattarella. Tre quarti dei parlamentari, ora, vengono eletti con marchingegno maggioritario, e gli ex rampolli di via delle Botteghe Oscure vanno un attimino in tilt. Occhetto, convinto non di vincere ma di demolire letterlamente la concorrenza, definisce la sua come una “gioiosa macchina da guerra”. Che però, di fronte all’allegoria festosa dell’azzurra libertà berlusconiana, si inceppa. Vince Silvio, coi suoi venditori di pentole di certo più ricchi di appeal dei residuati bellici della prima repubblica che schiera la sinistra, ormai ingialliti e da spedire in mansarda. Nasce un governone con leghisti, post-fascisti e apolidi dei partitoni sbriciolati da Tangentopoli. Passano due mesi però e Bossi inizia a bullizzare il Cavaliere con cadenza giornaliera. Dopo la partenza a razzo, il carrozzone ceruleo deraglia.

21 aprile 1996

Il “ribaltone” di un anno e mezzo e prima ha convinto Berlusca: democristiani ed ex missini ok, ma Dio ci scampi e liberi dai leghisti. Così Bossi, il quale grida ai quattro venti che ce l’ha sempre più duro, una volta ingollata un’ampolla d’acqua del Po decide per la corsa solitaria. Il governo tecnico di Dini, coi suoi traccheggi di palazzo, gli ha fatto saltare la mosca al naso. Però è a sinistra che si va di a tutto Vinavil: dai francescani del patto Segni fino alla Federazione dei Verdi, passando per i superstiti socialisti, vengono incollate sotto a un ramoscello d’Ulivo una decina di sigle. Non subentrano i rifondaroli di Bertinotti, che però si alleano all’orchestrona ulivista. Il cui frontman è un pacioccone emiliano senza labbra, più democristiano che cristiano: si chiama Romano Prodi. Eloquio sussurrante al limite del comprensibile, gran masticatore di grafici economici, il professore felsineo dietro allo sguardo da zio mansueto nasconde coriacea determinazione. Certo, il suo variopinto e chiassoso complesso strilla a mo’ di asilo Mariuccia già in campagna elettorale. Ma tant’è: il cattedratico tutto pane e mortadella, dopo 12 mila km percorsi in camper per tutto lo Stivale come un novello fricchettone, varca i tornelli di palazzo Chigi con uno stuolo di ministri e un battaglione di sottosegretari. Il Cavaliere è disarcionato, e torna col cappello in mano a Ponte di Legno a bussare al tinello del rutilante Bossi.

13 maggio 2001

Silvione scalpita. Vuole riprendersi d’imperio la scena, dopo cinque anni filati di sinistra con scorribanda a Palazzo Chigi pure del suo nemico-amico D’Alema, primo succedaneo della falce e del martello a issarsi sul trono. Il titolo V della Costituzione, che discetta di regioni ed enti locali, è ribaltato letteralmente e la cosa crea urla belluine. Prodi è a Bruxelles sulla plancia di comando della commissione Ue, e Berlusconi si sente di poter tornare a fare il gallo nel pollaio. A marzo esce un libro dal titolo “L’odore dei soldi”, scritto da un giornalista carneade allevato a pane, sentenze e favella da Montanelli: si chiama Marco Travaglio, e gli altarini che tira fuori creano diverticolosi plurime dalle parti di Arcore e Mocherio. L’8 maggio, sul sofà televisivo più ambito (quello di Bruno Vespa), Berlusconi firma il contratto con gli italiani, una lista di promesse della miglior tradizione marinaia. Il siparietto, sublime esempio di commedia all’italiana, ha vasta eco e successo. La sinistra oppone al lanciatissimo cavaliere il bellimbusto Francesco Rutelli, sindaco uscente della Capitale che ha districato benone il nodo di Gordio del Giubileo del 2000. Ex verde, ex radicale, ex un po’ di tutto, Rutelli per paraculaggine è secondo a pochi, è vanesio quanto basta e dal suo treno cerca di lanciare frecce di cupido agli italiani. I quali non si fanno beccare: Berlusconi rifila una scoppola tremenda sul mascellone alla Ridge Forrester dell’avversario. Il Cavaliere è di nuovo in groppa allo stallone, e ci rimarrà (nonostante la gragnola di avvisi di garanzia) per un lustro filato. Però mala tempora currunt: a luglio a Genova viene scritta una pagina di storia rivoltante in occasione del G8, con la macelleria messicana della Diaz. E a settembre, sei fusi orari più in là, due torri vanno giù e il mondo va in subbuglio.

TO BE CONTINUED…

Valerio Mingarelli