INDIETRO… TUTTA: GIULIANO “PISAVIA”, VERDINI DI RABBIA E ANGELINO SULL’ORIENT EXPRESS

“Se mi lasci, non vale”. Partiamo da Julio Iglesias, per descrivere gli ultimi dieci giorni di forsennate manovre politiche. Sarà che oggi il dilemma morettiano del “mi si nota più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” sembra prediligere la seconda opzione. Sarà che anche il palazzo dopo un po’ rompe e deprime con quell’aria consumata, quei protocolli rigidi e quegli austeri usceri in livrea scura. Oppure sarà che veniamo dall’annata musicale in cui ha spopolato “Despacito”. Sta di fatto che i balletti pre-elettorali sembrano tutti incentrati sul “passo indietro”.

Se ad aprire le danze aveva iniziato (con tempistiche paraculissime) il tribuno di punta dei 5 Stelle Ale Di Battista, adesso che lo scioglimento delle camere incombe ed è giunto il momento di “fare le squadre” è tutto un fioccare di ritiri, ripiegamenti, abdicazioni e fughe all’indietro. Il proliferare di “gran rifiuti” alla corsa allo scranno, considerato ormai (a parole) pieno di allergeni al pari di un latticino, contagia tanti attori di prim’ordine. Ed è sì un sintomo eloquente della schizofrenia politica dei tempi, ma pare quasi diventata una moda più virulenta del pantalone a zampa d’elefante nei ’70. Attenzione, però: non tutte le “rotte” sono rotte allo stesso modo. E sto nuovo costume di scansare la poltrona, per la verità molto poco italiano, cela in realtà storie diverse e parabole arcuate in modo differente.

Partiamo proprio da Di Battista: il suo sarà tutto fuorché un “buen retiro”. Lo vedremo come prima e più di prima e le sue arringhe chilometriche e accalorate si irradieranno ovunque, dalle piazze (habitat naturale) fino a qualsivoglia sgabello televisivo (forse persino alla “Prova del cuoco”: già ce la immaginiamo tutti la rubrica “I grandi soffritti del Dibba”). Semplicemente, il bellimbusto capitolino sostituirà nelle veci di mattatore proprio quel Beppe Grillo grazie al quale cinque anni fa fu scaraventato nel palazzo. Tra i grillini non ricalpesteranno i tappeti rossi anche Vega Colonnese, Silvia Giordano e Vincenzo Caso, ma per loro neanche mezza manfrina: le ritirate dunque hanno pesi e significati diversi.

Ne hanno di molteplici quelle degli ultimi giorni. Con un unico leit motiv: riguardano tutte il pulviscolo che ruota attorno alla galassia Pd. Su Pisapia questa rubrica è stata purtroppo (l’ex sindaco meneghino è persona d’oro) profetica: il somaro di Buridano, crepato di fame per indecisione, all’avvocato gli spiccia casa. Il leader di Campo Progressista, forza squagliatasi come un cremino nel Sahara, non ha mai avuto le “phisique du role” del federatore e si è rivelato campione olimpico di “mah, vedremo” su tutto. In particolar modo ce l’ha menata per dodici mesi con l’essere alternativo a Renzi, ma nel volersi alleare con Renzi: già qui gli estremi per consultare un medico ferrato in labirintiti c’erano tutti. Secondo aspetto, ha radunato sotto il gonfalone arancione mammiferi politici d’ogni genia, il cui filo conduttore era solo la bramosia di natiche al caldo. C’erano un ex Dc e prodiano consumato (Tabacci), un drago del trasformismo sinistrorso (Smeriglio) e un giovanotto tirato su a birrette e volantini nei centri sociali (Furfaro): pareva più l’inizio di una barzelletta che l’avvio di un nuovo progetto politico. Un minestrone rimasto sul fuoco per troppi mesi che alla fine si è attaccato al pentolino invece di finire nel calderone renziano. Risultato: mercoledì la resa, prendendo a pretesto lo Ius Soli parcheggiato da Renzi su un binario morto. E Pisapia ripartito mestamente col Frecciarossa con l’unica indecisione rimastagli: quella tra panettone e pandoro (lui non lo rivedremo presto, scommetteteci).

Un altro che a breve sventolerà il fazzoletto bianco di fronte a Palazzo Madama sarà Denis Verdini. Come ha svelato un bomber del retroscenismo (Vendrami), farà il passo indietro prima che siano gli altri a dargli lo spintone. I suoi gruppi parlamentari si stanno sbriciolando come frollini nel caffellatte e il controesodo verso la casa madre berlusconiana è già partito. Lui, invece, se ne sta in disparte a schiumare rabbia contro Renzi, reo di mancato riconoscenza dopo il mutuo soccorso di Ala alla maggioranza sia sul Rosatellum sia sui nodi più intrecciati nel pettine della legge di Bilancio. Il conte Mascetti della nostra politica ha un casellario giudiziario complesso e il Pd non può stipulare alcuna alleanza organica con lui. Dall’altra parte, troppi colonnelli dell’ex Cavaliere minacciano latrati e guerriglia in corridoio qualora Silvione lo riammettesse a corte. Se i gatti hanno sette vite, Verdini ne ha quattordici, ma stavolta è probabile che sia rimasto “cornuto e mazziato”.

Infine Alfano. I titoli di coda su un decennio filato da ministro (roba da far schiattare d’invidia Andreotti, Fanfani, Colombo e almeno una ventina di dorotei del ‘900), sono scorsi con una melensa chiacchierata con Bruno Vespa sui suoi lattei sofà. “Non mi ricandido perché mi hanno offeso le accuse di poltronismo” –  la verità ufficiale. Un po’ come una tigre che dice “mi tacciano di essere troppo ingorda di carne, perciò divento vegetariana”: scenario che regge il giusto. La faccenda relativa all’ex “delfino” azzurro è un tantino più arzigogolata. Renzi sotto traccia deve avergliela fischiettata chiara: “Angy, posso prendermi Ap ma non te, altrimenti la minoranza mi scassa i capasisi e i pisapiani mi vanno tutti con Grasso (ci andranno lo stesso, ndr)”. La verità più evidente però è che quello di Angelino è un assassinio politico (provvisorio eh: alle Europee 2019 risbucherà fuori come un raffreddore). Consumatosi all’interno della carrozza dove ha viaggiato negli ultimi anni: quella di Ap. Come il Ratchett-Cassetti dell’Orient Express di Agatha Christie, Angelino è stato pugnalato dagli stessi inquilini di convoglio, convinti che per garantirsi un futuro politico fosse necessario toglierlo di mezzo, e soprattutto divisi persino sulla scelta del vino bianco o rosso alle cene di partito. Forse, quando leggerete queste righe, Ap non esisterà più. I polentoni Formigoni e Albertini vogliono fare retromarcia e svignarsela per tornare (col cappello in mano) dal Berlusca. Lorenzin, Bianconi, Cicchitto e Pizzolante, che volevano griffare un’alleanza organica col Pd, probabilmente piglieranno a braccetto Casini e Galletti e faranno una lista centrista (da 0,7% sarebbe grasso colante) a rimorchio di Renzi. In mezzo poi c’è Lupi, il quale insiste perché ci si presenti da soli. Conscio però che sarebbe più facile vedere il Benevento schiantare il Real al Bernabeu che Ap raggiungere il 3%.

Di dietrofront illustri ne arriveranno altri, è certo. Ma le tante rinunce con ogni probabilità sono il contrappeso di quelle mancate. Cosa sarebbe successo, nel dicembre del 2016, se dopo la scoppola al referendum Renzi e gli scudieri Lotti, Boschi, etcetera si fossero presi un anno sabbatico e avessero passato il timone del carrozzone Dem? Visti i duecentomila rivoli in cui si sta disperdendo il grande fiume della sinistra italiana, è probabile che qualcuno sarebbe tornato in ginocchio sui legumi a Firenze per dir loro di tornare. O forse no. Di certo adesso Renzi viene scansato da tantissimi, manco avesse le pustole. E l’impressione è che da qui ai prossimi due mesi quel “Se mi lasci non vale” dovrà cantarlo ancora.

A sto punto la domanda è: ma perché il Rosatellum? Perché? Lo spazio è finito, andate in pace.

Valerio Mingarelli