PISAPIA, LA LEGGENDA DEL ‘SANTO FEDERATORE’: O TE MAGNI STA SINISTRA O TE BUTTI CO’ LA MINISTRA

Pronti via, dunque. Riposti in mansarda parei, pinne, fucili ed occhiali, si riparte. L’estate è stata torrida e il solleone ha biffato metri e metri di epidermidi e, in modo particolare, calotte craniche. Soprattutto, i colpi di calore plurimi hanno provocato devastanti crisi di identità. Così ci siamo ritrovati con Di Maio e Salvini paciosi a sorseggiare Franciacorta e Bellini tra le magnolie e gli allori di Villa D’Este, in riva a quel ramo del lago di Como che non volge a mezzogiorno ma più alle sei del pomeriggio, impegnati con fare zerbinotto a dar prova di disintossicazione da populismo a tutta la crema chantilly dell’establishment mondiale del forum Ambrosetti di Cernobbio. Lasciati fuori i cinturoni da rivoluzionari, i due hanno dato grande sfoggio di bon ton. Il golden boy grillino, paludato come un Emilio Colombo 4.0, ha dichiarato di essersi sempre ispirato al premier spagnolo Mariano Rajoy (il colpo di sole dev’essere stato devastante) e si è beccato del “garbato e raffinato borghese” nientemeno che da Mario Monti, uno che lì a villa D’Este praticamente dà del tu pure alla guardiania. L’ulceroso leader leghista, mutato in una sorta di rivisitazione di Nino Andreatta, ha invece parlato di crescita, lotta alla invalidante burocrazia e strategie fiscali smart, senza far cenno a ritorni alla lira o al sesterzio e abbandonando la consueta litania di abbai contro Bruxelles, in un melenso brodo di giuggiole con gli alteri economisti del Vecchio Continente. Al contrario, dopo il premier Gentiloni in pediluvio rilassato a Nettuno e il Renzi “trappeur” in campeggio a Forte dei Marmi come all’epopea dei Boy Scout, l’ultima frontiera dell’insolazione ci ha mostrato uno smagrito vegliardo, reduce da una draconiana dieta Detox, sperso in un autogrill tra noci di prosciutto, caramelle a ciucciotto e pacchi di Crisbì. Sì, è sempre lui: Silvietto da Arcore. Il caldo, è noto, per gli anziani è micidiale. Ma a lui la botta di calore si è mischiata con la paraculite cronica di cui è portatore insano da quando era in fasce, quindi il mix è stato quasi mortifero.

Insomma, nonostante la giornaliera messa cantata di avvertimenti di Studio aperto, col caldo non si scherza. Specie se si è angosciati, sfibrati e sottoposti a stress dal mondo intero. Il caso più eclatante è quello di Giuliano Pisapia, l’avvocato maestro di galateo e concretezza, indefesso amante del baccalà fritto e delle briscolate al circolo Arci “Bellezza” di Milano. Ora: nel 2011 vivevo proprio a Milano e seguendo Palazzo Marino ebbi modo di conoscere Pisapia, proprio nei mesi della roboante cavalcata arancione che lo portò a furor di popolo alla fascia tricolore. Bipede dai modi deliziosi, dalla disponibilità totale e dall’eloquio scarno ma sempre acuto e rassicurante, parlandoci si intuisce all’istante che è uomo più da faldone di delibere che da smartphone per twittate fresche “coram populo”. La sua esperienza amministrativa ai piedi della Madonnina è considerata da analisti, corsivisti e in special modo da larga parte dei milanesi buona e talora ottima (di certo tra le migliori, se ci limitiamo alle metropoli, del terzo millennio), pur con tutti i peli nell’uovo che ci sono sempre e nemmeno radi. Soprattutto, a lui viene dato il merito di aver facilitato l’attracco alla Darsena del vacillante battello di Expo 2015, un “bisonte” che rischiava di lasciare macerie e detriti materiali, economici ed emotivi nella capitale morale del Belpaese. Un anno fa, Pisapia appende però la banda tricolore al chiodo, pur tirato per la giacca in ogni dove dal Giambellino fino a San Siro. E come si dice in gergo pallonaro, saluta la curva. Motivo? Semplice: sfruttare il “tesoretto” di credito acquisito nel quinquennio da primo cittadino per fare, su scala nazionale, il “federatore della sinistra”.

Già, il federatore della sinistra. Una figura mitologica, da far invidia a quelle omeriche dell’antica Grecia, incorporea e diafana, di quelle che servono ai discendenti del Bottegone sparsi qua e là sui 328 mila isolotti che compongono l’arcipelago della sinistra una volta veniva chiamata antagonista (oggi l’antagonismo ce l’hanno solo tra loro), per continuare il sogno che fu di Marx, Engels e… va beh, non esageriamo. Sogno che, dal giorno del doloroso strappo della Bolognina che un quarto di secolo e spiccioli fa diede i conforti (non religiosi) al PCI prima della tumulazione, si infrange per il “primadonnismo” dei tanti viceré arroccati ognuno sul proprio piccolo atollo.

Così Pisapia appare come una sorta di Arcangelo Gabriele agli occhi dei vari Bersani, Speranza e D’Alema, evasi dal Nazareno dopo essere stati bullizzati quotidianamente per tutti i mille giorni di governo Renzi, e picchiando pure la botte oltre al cerchio, dopo essersi altresì lamentati per mille giorni come inconsolabili prefiche. “Checcavolo, uno che non masturba ogni tre minuti lo smartphone e che parla come mangia è perfetto per mandare in sollucchero la nostra base fatta di operai, muratori, braccianti, pensionati (tutte categorie che non li votano più da lustri)” – sentenziano tutti tra pacche sulle spalle e “batti 5!”. “Con l’avvocato convinciamo pure quei buontemponi da centro sociale di Fratoianni e Civati, vedrai” – è il film a tinte rosse prefigurato dai transfughi Pd.

Chimere e fantasticherie, però, presto si schiantano subito con la realtà già ai primi crash test. Pisapia, invece di federare gli isolotti già presenti, se ne fa uno suo dal nome “Campo Progressista” schiaffandoci sopra gente come Tabacci (quindi un figlio del cetaceo bianco chiamato Dc, per il quale governò la Lombardia negli anni ’80) e come Furfaro (37enne pasdaran sinistroide, di quelli con la t-shirt del “Che” sempre pronta all’uso). Dunque parte mixando la rava con la fava, l’avvocato garbato. “Vogliamo un centrosinistra di governo, che abbracci tutti, ma che superi il renzismo”. Il 30 aprile Renzi viene riconfermato segretario Pd con quota bulgara, e al meneghino iniziano i pruriti. Il primo di luglio, a piazza Santissimi Apostoli, il santo federatore tenta di uscire dalla naftalina e chiama a sé le genti di tutti i “land” sinistri. Ola, torcide e mani spellate per tutti, da Bersani fino al Dem di minoranza Orlando, ma per lui niente. Qualche brusio, sbadigli a mandibole spalancate e boom di palpebre calanti. Essendo lì quel pomeriggio, posso confermare: Pisapia dice perlopiù cose che non fanno una grinza, ma il subcomandante Marcos in Messico nello scaldare i cuori pare lontano assai più di otto fusi orari. Soprattutto, al penalista si incanta il disco sul “centrosinistra largo”. Ergo dialogante con Renzi. Ergo proprio quello scenario che a un buon 97% dei presenti in quella piazza scatena cefalee veementi. Nel mezzo però, Pisapia ammonisce: “Con Alfano mai, diktat categorico”.

Il patatrac arriva però il 21 luglio, tre settimane dopo, alla Festa dell’Unità allo Scalo Farini di Milano. L’ex sindaco abbraccia la Boschi come fosse una nipote che gli ha appena annunciato che convolerà a nozze. La foto fa il giro di tv, giornali, bacheche e timeline, e in Articolo Uno i reflussi gastroesofagei toccano il picco massimo. Per fare la pace serve l’ennesimo thè freddo riparatore tra lui e Speranza e, due giorni dopo, un Pd impantanato sullo Ius Soli che ricompatta nella contumelia tutto il cucuzzaro rosso contro Renzi. L’ultima puntata della saga qualche parallelo più giù, in Sicilia. Il Pd stringe “il patto dell’arancino” con Alfano per appoggiare Micari e Articolo Uno “strappa” lanciando nella tonnara Claudio Fava, nome di peso in tema di antimafia. Pisapia, sempre quello del “mai con Alfano”, mugugna come un bimbo a cui hanno fatto cadere il Calippo per mezza giornata contro Bersani and co, rei di non aver appoggiato Micari (quindi di non stare a fianco ad Alfano). Poi, resosi conto che forse a quei rari mammiferi ai quali potrebbe balenare la voglia di votarlo verrà presto la labirintite, esce con un comunicato dicendo che non starà né con Micari né con Fava, ma che spera vivamente si parlino, e che magari facciano a “passa paperino con la pipa in bocca” per scegliere chi dei due debba togliersi dalla griglia di partenza.

Dunque: Pisapia è persona adorabile e degna di rispetto oceanico. Però sembra sempre di più un somaro di Buridano, che come narra l’apologo si trovò indeciso tra due mucchi di fieno e alla fine, per non scegliere, morì di fame. Nella sinistra ci sono diatribe (anche personali) insanabili tra l’arcipelago rosso e il Pd renziano: incollare col Bostik ciò che in questi anni si è sbriciolato non si può. Di certo non per le politiche del 2018: quindi niente centrosinistra. Pisapia decida: o federa sta sinistra, o riabbracci la ministra. Di certo la leggenda del santo federatore continuerà: settimana prossima nuovo summit coi suoi a Roma, e forse pure con Mdp. Si federi chi può.

Valerio Mingarelli