SE CHI RISICA POI ROSICA: MEMORIE REFERENDARIE

“Il non fare nulla è la cosa più difficile del mondo. La più difficile e la più intellettuale” – sosteneva nell’800 quel polemista doc che rispondeva al nome di Oscar Wilde, fermo sul pensiero che lavorare è roba per chi non ha proprio nient’altro da fare. Chissà cosa penserebbe oggi il letterato (e sopraffino battutista) irlandese nel guardare da uno spioncino il via vai annoiato in Transatlantico, il costante croccare di patatine e arachidi nella buvette o le palpebre serrate degli appisolati onorevoli spaparanzati sugli scranni di Montecitorio. Il Parlamento è fermo, preda di un ozio faceto e di un clima da ricreazione permanente. Nelle commissioni mancano soltanto le carte da tresette e il tabellone del Monopoli, nel cortile si gioca a campana e le rare (e compresse) sedute d’Aula potrebbero sostituire tranquillamente il bromuro somministrato agli ergastolani di Rebibbia. E chi si azzarda a chiedere una cosa, non dico il testo di un’interpellanza o l’ordine del giorno, ma anche robe futili quali l’ora, un fazzoletto da naso o una Vigorsol, si sente ripetere sempre la stessa tiritera: “Se ne riparla dopo il referendum”.

Si fa di tutto per non parlarne. C’è persino chi prova a intavolare un abbozzo di sermone sulla legge di Stabilità, la cui deadline si avvicina a falcata incessante, ma il più delle volte viene trattato come lo scemo del villaggio. Così, nell’indolente atmosfera montecitoriana, tutti i sussurri e i bisbigli sono per lui: il referendum. Tra chi prova a immaginarsi il dopo e chi invece non sa quale panzane raccontare una volta sceso negli inferi della sala stampa, si tira a campare (e a indovinare). A dare note heavy metal a questo festival di nenie gregoriane ci ha pensato lunedì la direzione del PD, ormai unico “serial drama” della politica nostrana con i suoi cruenti streaming. Da una parte il sultano e i suoi, che agitano venti d’apocalisse se non si marcia compatti sul Sì. Dall’altra la minoranza PD, che minaccia la maggioranza perché l’Italicum conduce alla dittatura (della minoranza PD, ovvio).

In mezzo a cotanta babele, non è certo questa la sede per lanciarsi in previsioni alla Paolo Fox o ancor peggio in imprudenti indicazioni di voto. Un’analisi però la si può azzardare. Renzi poteva evitare (domanda ormai assurta al “Fu vera gloria?” manzoniano) di personalizzare il referendum? No, non poteva. Dopo aver defenestrato con furbizia levantina Letta da Palazzo Chigi, la sua “mission” era nota: mostrare al resto della galassia (e a Napolitano) la sua incisività di riformista arrembante e di demolitore impavido del “vecchio”. Quindi giù riforme “politiche” a man bassa: scuola, lavoro, pubblica amministrazione, rava, fava, etc. Per quella “istituzionale” sapeva però che senza legittimazione popolare non poteva esserci gatto da mettere nel sacco: indorato il pasticcone ai parlamentari, bisognava per forza farlo ingoiare anche ai cittadini passando attraverso il ponte tibetano del referendum.

E qui riavvolgiamo il nastro: il referendum, la storia lo racconta, è un’arma a doppio taglio. Anzi una motosega: se non viene maneggiato con cura, cade su un piede e ti azzoppa. Irreversibilmente. Il festival delle grandi rosicate nella nostra repubblica lo aprì il “lillipuziano” Amintore Fanfani nel 1974. “Se lascerete la legge sul divorzio, vostra moglie vi mollerà per fuggire con la serva!” – fu la buffa personalizzazione dello scugnizzo aretino alla viglia del referendum di abrogazione della legge sul divorzio. Gli italiani però alle urne squarciarono il bigottismo col punteruolo facendo prevalere (e non di poco) il “No”. Punendo così anche il generale DC simbolo del precedente ventennio dominato dalla balonottera bianca del post De Gasperi. Lo scudocrociato si tagliò di nuovo col referendum nella campagna dell’81: gli italiani (al governo c’era Forlani) rispedirono al mittente pure il tentativo di “cassare” la legge sull’aborto. Pochi anni dopo non andò meglio al “cinghialone” Bettino Craxi, dominus assoluto del proscenio esecutivo degli anni ’80: nell’85 il dioscuro socialista tentò l’abrogazione del taglio dei punti della scala mobile (non quella che a Termini porta alla banchina del metrò, ma lo strumento con cui si indicizzavano i salari in base ai livelli dei prezzi al consumo). Dopo due anni di luna di miele sul trono, per il leader del garofano rosso arrivò la prima doccia fredda. Avvezzo a personalizzare anche le riunioni di condominio con piglio napoleonico, Bettino nel ’91 andò al duello col malinconico (ma sagacissimo) Mariotto Segni, che aveva il pallino di cambiare il sistema elettorale: “bando al bailamme di preferenze elettorali, ne basta una” – fu il Mariotto-pensiero. Era una sfida Davide Vs Golia, e il cinghialone invitò gli italiani ad andare al mare (era il 9 giugno). Gli italiani ci andarono, ma prima fecero un salto al seggio e il Sì stravinse. La motosega finì di nuovo sui nerboruti stinchi di Bettino, in uno dei risultati elettorali più inattesi della storia repubblicana.

Oggi le cose sono cambiate? Affatto. Il referendum resta un fendente pericolosissimo. Per informazioni, Renzi dovrebbe fare un colpo di telefono a David Cameron. Conservatore illuminato, “Tory Blair” (fu il nickname che gli affibbiarono all’arrivo a Downing Street) si è dimostrato il leader che tutti i sudditi di sua maestà aspettavano da anni. Maestro nell’utilizzo della scure sulla spesa pubblica, decisionista pericleo in materia economica, ha scongiurato con abilità (proprio tenendo il coltello dalla parte del manico nel referendum) la secessione della Scozia. Poi però, preso da un filino di alterigia, da aquila reale si è trasformato in pollo. Prima ha battibeccato per un semestre intero con Ue e Merkel. Poi, per disinnescare i populisti caciaroni di Farage, ha lanciato il referendum sulla Brexit. Disinteressandone, certo del tripudio del “remain”. Come è andata lo sappiamo tutti: l’uomo prodigio delle destre occidentali col referendum non si è sfregiato, ma si è amputato entrambi i piedi cadendo come un pupazzo di carta crespa. Mastica amaro da due settimane anche l’ungherese Viktor Orban, altro premier che Renzi farebbe bene a contattare (magari in chat). L’uomo dei muri e delle carabine spianate in funzione anti-immigrati, ha interpellato il popolo magiaro chiedendo loro se fosse o meno giusto accettare le quote Ue di migranti. A birra e gulasch però i magiari non sanno resistere, e il 57% di loro ha disertato le urne. Addio quorum e carabine ora puntate (da oppositori interni ed esterni) proprio sul reazionario regnante delle sponde del Danubio. Altro capo di governo da “messaggiare” per Renzi (anche con un piccione viaggiatore) è il presidente colombiano Manuel Santos. Dopo anni sanguinolenti, il numero uno di Bogotà aveva finalmente stretto un accordo per un cessate il fuoco col leader delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) Rodrigo “Timochenko” Londono. Eppure, anche qui ha vinto il No. In Colombia non si naviga nell’oro, e il rischio di un tracollo dell’economia simile a quello del Venezuela post-chavista o del Brasile attuale è forte. Pur di “cazziare” Santos, in pratica, i colombiani hanno preferito la guerra alla pace.

Dunque, il referendum “taglia” e fa male ancora (soprattutto a chi governa). Fanfani e Craxi non ci sono più, ma gli attuali colleghi primi ministri “azzoppati” dalla motosega Renzi farebbe bene a consultarli. Perché a rosicare, dopo aver “risicato” troppo, è un attimo.

Valerio Mingarelli