IL REFERENDUM E LA ‘SANTABARBARA’: SEI PERSONAGGI IN CERCA DI UDITORE

Tutto deciso, dunque. Il D-Day della Costituzione italiana è fissato per il 4 dicembre. Corsi e ricorsi storici: lo stesso giorno di 34 anni fa la Repubblica Popolare Cinese sposò la sua, di Costituzione. E dalle parti di Pechino, a tutt’oggi in parecchi la considerano “la più bello del mondo” (vi dice nulla sta storia?). Non solo. Il 4 dicembre la Chiesa cattolica celebra Santa Barbara, martire protettrice degli artificieri e dei minatori. Quelli della politica nostrana, di artificieri, trafficano coi detonanti già da mesi: per questo nella santabarbara (che proprio in nome della santa in italiano significa anche “polveriera”) ci siamo già dentro. Si tratta del referendum più personalizzato della nostra storia: dagli ultras del “Sì” e del “No” sono già stati evocati scenari apocalittici, pandemie di scarlattina, piaghe d’Egitto, arrivi in massa di locuste e altri celiferi. La verità è che nel nostro quotidiano non cambierà una beata mazza: chi naviga nell’oro proseguirà col veleggiare, chi fa i 100 stile libero nella merda continuerà col nuotare. L’assetto politico e istituzionale invece cambierà e non poco, in entrambi i casi: chi vincerà infierirà senza troppi complimenti sul sangue dei vinti e l’autunno sarà arroventato. Quindi, senza entrare a piedi pari nella filastrocca del “merito della riforma” e del “combinato disposto” riforma costituzionale-Italicum (pipponi che ci faranno fischiare i timpani per settimane), lanciamoci in un temerario borsino di sei personaggi cruciali di questo tormentato thriller autunnale.

MATTEO RENZI. E’ inquieto e crucciato, il golden-boy toscano. Ad aprile, dopo il “disco verde” alla novella Costituzione in Parlamento, auspicava una passerella trionfale tra sudditi festanti, ancelle ridenti e pretoriani con le mani spellate dagli applausi, tanto da lanciare il proclama imperiale “o vinco o fuggo in esilio”. Da lì, solo dolori. Alle amministrative è stato preso a pallate. Il suo Jobs Act si è rivelato un’Aspirina quando la disoccupazione nel paese è un’interminabile broncospasmo. Il sistema bancario gli si è “spappato” come un savoiardo inzuppato nel capuccino. I dati economici sono diventati un funerale mensile. In Europa, inoltre, si è reso conto che Merkel e Hollande lo chiamano al tavolo dei grandi solo quando si gioca a rubamazzo e mai quando c’è il poker. Così, ha passato l’estate a frignare: “Se non passa il Sì la prossima riforma arriverà tra sei ere geologiche”, “Arriveranno i Visigoti”, “”Vivremo di stenti” e altri piagnucolii. Adesso ha ripreso a spararle a pallettoni. “Raddoppieremo le quattordicesime”, “Aumenteremo le pensioni minime”, “taglieremo la tassa X e l’imposta Y”. All’appello mancano solo una batteria di pentole Mondialcasa in acciaio Inox 18/10 e un televisore di 56 pollici ad ogni contribuente (ma arriveranno). Poi lui, il convitato di pietra di ogni “tenzone” elettorale: il ponte sullo Stretto di Messina, con annessi 100 mila posti di lavoro. Da Craxi a De Mita fino a Berlusconi, è così sdoganato che ormai è come dire “s’è fatta ‘na certa” quando ci si è rotti le palle: promettere fontane che danno vino è più credibile. La verità è che Renzi ha scelto di giocarsi il lato B con questo referendum, e ora prega in armeno. Sarebbe benefica una telefonatina a David Cameron: l’ex premier conservatore britannico (un bomber politico) al tavolo verde si è fatto prendere la mano e sul voto sulla Brexit si è giocato la casa, perdendo tutto. Se vincerà il “No” Renzi non perderà tutto, ma uscirà dall’ippodromo come un ronzino azzoppato. Per sempre.

VIRGINIA RAGGI. Che c’azzecca la sindaca di Roma con la Costituzione, direte voi? Tantissimo: dal giorno che i romani l’hanno scaraventata a Palazzo Senatorio, è diventata giocoforza la front-woman del M5S. Più di Grillo, che infatti la sta difendendo dalle due “matrigne” Ruocco e Lombardi. Più di Casaleggio Junior (se il papà era schivo, lui è più taciturno della statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori). Più di Di Maio, disarcionato da leader “in pectore” per il pasticcio della mail non capita. E anche più di Di Battista, il cui arrembante tour italiano per il “No” è stato spazzato via nell’immaginario pubblico dai venti di burrasca soffiati nella Capitale. Da Vancouver a Sydney, gli occhi di tutto il mondo ora sono su di lei: l’avvocatessa dell’Appio Latino, prima donna al timone della città “kaput mundi”. Finora ogni merda o buccia di banana che c’era da pestare l’ha pestata, e la grande fuga giù dal Sisto IV di parte della sua giunta originaria l’ha piegata sulle rotule come un pugile suonato. Per uscire dall’angolo si è presa lo scalpo di Malagò, del circolo canottieri Aniene, del Coni e dei palazzinari sbattendoli tutti giù dal carrozzone olimpico con tanto di “pacco” cosmico a pochi minuti dalla doccia-conferenza stampa gelata. I destini del M5S dipendono in gran parte dal suo operato, per questo deve darsi una svegliata con sto benedetto assessore al bilancio: bruciato anche Tutino, restano la U, la V e la Z. L’elettorato 5S è il più ampio della fronda del “No”, e la telenovela Campidoglio sposterà eccome.

STEFANO PARISI: Altro che c’azzecca poco, direte voi. Però l’ormai 80enne Berlusca (auguri…) gli ha appioppato il rimorchiatore che dovrà condurre in salvo il catamarano forzista, e inevitabilmente lo ha strattonato in mezzo alla variegata orda del “No”. Alla prima uscita pubblica allo spazio Megawatt di Milano c’era di tutto, esclusi i Megawatt: la platea dormiente è stata rianimata con guaranà per via endovenosa.  Aspetto più importante: alla convention sedevano belli ringalluzziti i vari Lupi, Formigoni e compagnia ciellina, tutta gente che la riforma l’ha votata in Parlamento e la voterà nell’urna dicembrina. L’approccio finora è troppo “cattedratico”: il suo sponsor di Arcore insegna che con grafici e tecnicismi non si acchiappa neppure il voto delle rispettive suocere, e ad oggi l’appeal elettorale su scala nazionale del manager è pari a quello di mia nonna in lingerie anni ‘40 su Instagram (i caporali berlusconiani lo guardano in cagnesco per questo). Il primo sussulto lo ha avuto lunedì: “Renzi va oltre il ridicolo”. Un’uscita brunettiana, tanto che si è beccato un “bravo!” proprio dall’ex ministro mignon che fino a ieri lo avrebbe spintonato giù dalla Darsena. Ora il “City manager” partirà per un tour nelle venti regioni, e del voto gli verrà chiesto conto: si prevede altro slang brunettiano. Se il suo girovagare passerà fuori dal radar, l’ala moderata del centrodestra è destinata a rimanere una band senza cantante (e molti voteranno “Sì”).

MASSIMO D’ALEMA. Baffino in quanto a spinosità e sagacia politica ne mette ancora in fila parecchi, e sul sofà di Floris a La7 ieri lo ha ribadito. Il veleno delle sue frecciate però appare stantio. Tanto che nel fronte del “No” in tanti gridano al boomerang di fronte al suo rientro nell’agone della ciarla politica dopo anni di oscuro backstage tra libri e vitigni. Si comporta come il patriarca che ha dovuto mollare la sua eredità al nipote più degenerato, dimenticando però che ai tanti “aficionados” della sinistra (ai quali per anni i rami della vecchia Quercia sono caduti addosso) sta letteralmente sulle palle. “Se vince il “No” spero in un Renzi meno presuntuoso” – ha detto lui che la presunzione la vende al quintale. Però lo risentiremo, e la sua lingua è sempre uno dei fendenti più affilati (o a doppio taglio?).

UMBERTO BOSSI. A proposito di cariatidi, è tornato a farsi sentire anche il “senatur”. Il suo “No” alla riforma ha un peso specifico superiore a quello di Salvini: il giovane panzer leghista voterà “No” solo per dare un avviso di sfratto a Renzi (della Costituzione gli frega quanto a me interessa “Pomeriggio Cinque”). L’anziano (ex) cocchiere del Carroccio invece è entrato nel merito: non vuole un sistema incentrato sul premierato e una repubblica fondata sui decreti legge col governo che fa pentole e coperchi. Penserete: ormai Bossi conta come un salmerino nel lago Michigan. In realtà però il popolo nordista lo segue ancora, e le bordate lanciate proprio su Salvini dopo la consueta rimpatriata di Pontida (“è un cane che abbaia ma non sa mordere”) dicono parecchio.

MARIA ELENA BOSCHI. Qui la domanda è: che fine ha fatto? In tema di latitanza, da qualche mese la batte solo il padrino Messina Denaro. Dopo le gaffes primaverili, si è rivista soltanto in qualche sortita a sperdute feste dell’Unità, dove non ha perso il feeling con gli strafalcioni. C’è poi la storiaccia di Banca Etruria, che la vede sul barbecue da mesi. Con i risparmiatori che ormai bruciano bambole con le sembianze di “Mariaele” come rito propiziatorio per riavere la loro grana. Renzi ha intimato al fido Lotti di tenerla a riparo in uno sgabuzzino, perché se parla fa più danni di Kondogbia nel centrocampo dell’Inter e nell’indice di gradimento dei ministri è fanalino di coda con l’accuso. Attenzione però: il testo su cui si vota porta il suo nome, quindi Renzi dovrà per forza trovare il modo di riabilitarla. Altrimenti nello sgabuzzino ci finisce pure lui.

Valerio Mingarelli