‘SON MATTEO’ E L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ETERE

“In politica la comunicazione è tutto!” – è il motto (un po’ riduttivo) da maestrine sapientone di massmediologi, guru, portaborse, portaborsoni, porta-pochette, spin doctor, ghost writer, ghost costume designer, ghost e basta, bracci destri e bracci sinistri dei mammasantissima della politica italiana. Certo, sono lontani i tempi delle concioni soporifere di Aldo Moro. O di Alighiero Noschese logopedista satirico del biascicante Pietro Nenni. E ancor più quelli in cui solo Giulio conosceva Andreotti e solo Andreotti conosceva Giulio. Dalla ormai celeberrima discesa nell’agone di Silvio B. con la illustre videochiamata alle armi (“l’Italia è il paese che amo”… il resto è garzantina televisiva anno 1994), con la seconda repubblica i politici di ogni bandiera, colore, rango e slang sono entrati nelle nostre case sfondando il portone (anche quelli blindati). Con qualche rara eccezione, come quel Gianni Letta autentico “Richelieu” proprio del berciante Cavaliere, che per vent’anni ha tenuto i fili di Palazzo Chigi tra summit nascosti e “patti della crostata” senza mai trovarsi neanche mezzo virgolettato sui giornali (lui che era stimato giornalista, pensa tu). Ma Letta è Letta, e Richelieu è Richelieu: non sappiamo se sia già iniziata la terza di repubblica, però oggi nella politica essere ed apparire non sono più due rette parallele che si guardano fitte senza incontrarsi mai. Gragnole di tweet, ospitate e comparsate radiotelevisive, omelie pubbliche, titoloni, occhielli, catenacci fino a siti internet cuciti su misura e al “si selfie chi può”: oggi bisogna dire, fare e strafare (almeno a parole). E poco importa se arriva lo svarione o (come sempre più spesso accade) la presa per il culo virale: va bene tutto, purché se ne parli.

Il segno dei malandati tempi odierni è racchiuso nella “tenzone dei mattei”, cioè nella petulante e ridondante sfida frantumapalle tra Matteo Renzi e Matteo Salvini a colpi di comunicazione. Sembra ieri che il primo pareva il classico smargiasso uscito da un film di Pieraccioni e il secondo un rude addetto al reparto ortofrutta dell’Esselunga di Gallarate. Anche Silvio B. appare ancora, così come Giorgia Meloni e il “duo-Di” del M5S (Di Maio e Di Battista). I Mattei però appaiono ovunque, anche a tv e pc spenti, come forze sovrannaturali di una pellicola fantasy.

Su di loro la storia è stata incontrovertibile. Renzi in un amen si è preso prima il più grande partito d’Italia a suon di emoticon, supercazzole social, blitz catodici e soprattutto legnate continue alla vecchia guardia sinistrorsa che, da D’Alema a Bersani passando per Prodi, aveva l’appeal televisivo di una televendita con Marisa Laurito e Cesare Cadeo. Poi, col ghigno malandrino da cyber-bullo, ha spintonato giù dalla rupe Tarpea il paludato Enrico Letta (non Richelieu) e si è preso il bastone del comando del paese. Se è vero il detto che i comunisti mangiavano i bambini, lui in tv è sembrato più il bambino che si è mangiato i comunisti. Per Matteo Salvini il discorso è simile. Nato e cresciuto nell’accolita di quelli che “ce l’hanno duro” (la Lega), è stato tirato su dall’ulceroso Bossi al grido di “Roma ladrona” e “non moriremo democristiani”. Poi però si è accorto che il suo mentore, proprio come gli alfieri del cetaceo bianco, aveva messo le venose mani su ogni maniglia dello stato e del parastato facendo incetta di poltrone, sgabelli, “cadreghe” e soprattutto quattrini. Così ha dovuto rimettere sui binari il carroccio deragliato, e cominciando a guaire sui sofà televisivi contro l’euro cattivone, la Fornero sadica e l’immigrato scroccone, ci è riuscito (maltrattandoci le gonadi). Per parlare alla pancia del paese, ci mancava solo di vederlo a “La prova del cuoco” alle prese con trofie al pesto e faraone in potacchio.

I due però ora hanno passato il segno. Twittano su tutto il twittabile: sullo Sblocca Italia e sull’abolizione del Senato, sull’Imu e sulla Tari, sul Milan e sulla Fiorentina, sulla cassoeula e sulla finocchiona, sulle verruche e sugli ascessi, sulla fotosintesi clorofilliana e sulla tettonica a zolle. Dicono tutto per non dire nulla. Se uno scrive “non esistono più le mezze stagioni”, l’altro risponde “non si può fare di tutt’erba un fascio”. In tv la loro è un’invasione “manu militari”: se Renzi va dalla De Filippi con chiodo in pelle stile Jax Teller di Sons of Anarchy, Salvini va dalla D’Urso in felpa con su scritto FriuliVeneziaGiulia (tutto attaccato) manco fosse un giavellottista di Aquileia. Se uno è a Ballarò, l’altro è a DiMartedì. Se uno è ad Agorà, l’altro è a l’Aria che tira. E ancora: Vespa, Gruber, Mentana, Fazio, Parenzo, Del Debbio, Formigli: li impallinano tutti. Se uno è al “Tale e quale show” a fare Stanlio, l’altro ci va la stessa sera e fa “Onlio”. L’escalation col 2016 è arrivata a livelli da sindrome ossessivo-compulsiva. Renzi è sempre all’estero: dalla Merkel al governatore della Kamchatka è apparso in video con tutti i leader di stato sulle terre emerse. Si farebbe infilare persino in House of Cards come maggiordomo a Camp David per un passaggio tv. Salvini, da par suo, dopo gli attentati di Bruxelles è diventato uno e trino, tanto che ha fatto un colloquio con i RIS delle Fiandre pur di farsi vedere sulla scena del delitto e si è inventato un grottesco viaggio in Israele per farsi seguire dalle cineprese pure a Pasqua (anche il muro del pianto pare si sia messo a ridere). A questo punto l’unica scappatoia è spedire Matteo più Matteo (e visto che ci siamo pure Don Matteo, responsabile del sovraffollamento delle carceri) in unica emittente, per dare un volto definitivo all’insostenibile pesantezza dell’etere.

A Fabriano i problemi sono altri: a differenza di Salvini, noi democristiani ci moriremo davvero. Abbiamo un comune finito con le pezze sulle natiche grazie alla DC, e a toglierci dalle sabbie mobili abbiamo figure di scuola e militanza DC. Questo però (su Twitter come in tv) non si può dire.

Valerio Mingarelli